Ai Weiwei a Venezia: Il mio viaggio da rifugiato tra i rifugiati

1 settembre 2017

Un viaggio lungo un anno, sulle tracce di quel flusso di migranti che attraversa il mondo, toccando 20 Paesi, fra centri urbani ridotti in macerie e 40 campi profughi. E’ quello che ha intrapreso l’artista cinese Ai Weiwei per realizzare “Human flow”, il documentario in concorso alla Mostra di Venezia. Ha realizzato centinaia di interviste per raccogliere dolore e spaesamento, partendo da Lesbo, dove si era recato nel dicembre 2015 per assistere da vicino all’arrivo dei migranti lungo le coste europee. “E’ una sfida quando fai un film. Tutti i giorni vedi telegiornali sulla tragedia. Dopo un po’ capisci che le notizie sono tutte uguali. Dicono che è sconvolgente o parlano di violenza, della crisi. Ma il nostro film è diverso. Cerca di dare ai rifugiati un contesto più storico, di parlare di umanità e vita quotidiana. Sono saltato nel tema. In una situazione di rifugiati, ho cercato quasi disperatamente di lanciare un grido, di farmi sentire: guardate qui, cosa sta succedendo”.

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Ai Weiwei, nato a Pechino nel 1957, si definisce lui stesso un rifugiato: “Io stesso mi sento un rifugiato perché sono nato quando mio padre è stato esiliato. Fummo mandati molto lontano, il più lontano possibile dalla capitale. E mio padre viveva in clandestinità e quando ero piccolo vivevamo in una situazione terribilmente difficile. Forse questo mi connette alle persone sfortunate.” L’artista, che ha studiato e lavorato a lungo negli Stati Uniti ma poi è tornato in Cina, nel 2011 è stato recluso per 81 giorni con l’accusa di opposizione al regime e mandato in una località segreta. Un altro esilio. Ma oggi, nonostante tutto, si dice ottimista: “Penso che in superficie la situazione non migliori perché le tendenze alla segregazione diventano sempre più forti. Ma alla fine penso che ce la faremo perché dobbiamo ridefinire quei valori, capire che il mondo non può spaccarsi, dobbiamo essere uniti per risolvere il problema”.

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