Consiglio cooperazione del Golfo, un’alleanza in crisi

Consiglio cooperazione del Golfo, un’alleanza in crisi
5 dicembre 2017

Il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) si riunisce oggi in Kuwait per un vertice annuale che giunge in un momento di profonda crisi interna. Le tensioni che da sei mesi animano le due principali potenze di questo gruppo petrolifero sunnita – l’Arabia saudita e il Qatar – hanno avuto un grande impatto anche sulla riunione odierna, disertata dal suo ospite forse più atteso: il re saudita Salman. Il monarca ha deciso di non recarsi in Kuwait ed ha inviato, in sua rappresentanza, il ministro degli Esteri Adel al Jubeir. Il Ccg è un’unione politica ed economica che comprende Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman, e che controlla un terzo delle riserve mondiali di greggio. Dominato da Riad, il Ccg fa da contrappeso regionale alla Repubblica islamica d’Iran, grande potenza sciita. Il vertice giunge sei mesi dopo l’inizio di una grave crisi diplomatica tra il Qatar e l’Arabia saudita con i suoi alleati. Il 5 giugno, l’Arabia Saudita, il Bahrein, gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Doha, accusata di sostenere i movimenti estremisti e di non prendere le distanze dall’Iran sciita. Il Kuwait e l’Oman si sono invece rimasti estranei al boicottaggio del Qatar. Nato nel maggio del 1981, nel mezzo della guerra tra Iraq e Iran, due anni dopo il trionfo della rivoluzione islamica a Teheran, che minacciava di essere esportata nelle monarchie sunnite del Golfo, il Consiglio di cooperazione conta ora circa 50 milioni di abitanti, metà dei quali stranieri. Sul fronte politico, solo due paesi dispongono di parlamenti eletti: Kuwait e il Bahrain.

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Il Ccg dispone di una forza militare comune, lo “Scudo della penisola”, che però non è stato in grado di impedire l’invasione irachena del Kuwait nel 1990. Dopo la liberazione del Paese nel 1991 da parte di una coalizione guidata da Washington, gli Stati del Ccg hanno firmato individualmente accordi di difesa, in particolare con gli Stati Uniti (che, secondo il Pentagono, contano ora 35.000 soldati nel Golfo). Truppe dello “Scudo della penisola” sono state schierate poi in Bahrain nel marzo 2011 per proteggere le strutture vitali di questo paese da un movimento di protesta a guida sciita. Il Consiglio di cooperazione del Golfo ha approvato un’unione doganale, un mercato comune, una moneta unica e una banca centrale unica, ma la maggior parte di queste decisioni non hanno mai avuto seguito. Il Ccg ha inoltre introdotto la libertà di circolazione di cittadini e capitali, sebbene restino importanti restrizioni su centinaia di attività economiche. Le economie dei Paesi membri sono fortemente dipendenti dal petrolio, da cui gli Stati ricavano circa il 90% delle loro entrate. I sei Paesi, quattro dei quali membri dell’Opec, attualmente pompano 17 milioni di barili di greggio al giorno, ovvero circa il 18% della produzione mondiale. Per compensare il calo delle entrate petrolifere in seguito al crollo dei prezzi del petrolio, dimezzatisi dalla metà del 2014, alcuni Stati del Ccg hanno pianificato di applicare un’Iva del 5% dal 2018. L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che rappresentano il 75% dell’economia del Ccg (che vale circa 1,4 trilioni di dollari) e ospitano l’80% della popolazione, hanno già adottato diverse misure di austerità. Il reddito medio pro capite dei sei membri del Ccg è di circa 27.400 dollari. Le attività collocate all’estero da questi paesi sono stimate a 2,4 trilioni di dollari. askanews

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