“Quelli della fiamma”, la superstite retroguardia in Sicilia

13 maggio 2017

Se le foto sono incorrotte testimoni del tempo, quelle racchiuse nel libro di Nello Musumeci (Quelli della fiamma, Edizioni Cespos, euro 12,00) riannodano il filo di una memoria collettiva, appartenente a una comunità di uomini e donne che viene unita dalla tragica, ineludibile, consapevolezza di essere, alla fine della seconda guerra mondiale, la superstite retroguardia in Sicilia di una fede politica – quella   fascista – giudicata e condannata senz’appello dal tribunale della Storia. Senza quel clima, tra reducismo repubblichino e orgogliosa rivendicazione di una idealità politica – a quel tempo – considerata eretica, è del resto difficile comprendere la ragione per cui ogni militante missino – il Movimento Sociale Italiano si costituisce nel dicembre 1946 – appare eversivo già nel momento stesso in cui sconfessa, con la sua azione politica, la narrazione imperante dei vincitori e ribadisce tutte le attenuanti – ideali e fattuali – che ogni sconfitta pur sempre riserva. Nelle pagine del libro scorre così la storia fotografica di un mondo che, negli anni Cinquanta e Sessanta, si muove come un fiume carsico, tra le viscere di un Paese tormentato e crudele, benché altrettanto pronto ad affiorare sulla scena sociale – con la nascita nel 1950 della Cisnal – e politica, non appena vacilli – seppur per mero tatticismo politico – la discriminante contro il Movimento Sociale, che si consuma all’interno di quell’arco costituzionale che comprende le forze antifasciste, ad opera di una Democrazia Cristiana la quale, dopo l’esperienza dei governi centristi ispirati dall’alta guida morale e politica di De Gasperi, è ancora impaurita e perplessa riguardo all’embrassons – nous con le sinistre. Da parte sua, il partito di Michelini sa di giocare una partita estremamente importante per la propria sopravvivenza. Minacciato più volte di scioglimento per reato di apologia fascista, il leader toscano se si mostra propenso al soccorso parlamentare alla DC tenterà, altresì, di dare dignità e agibilità politica all’espressione di milioni di voti d’italiani prospettando, seppure con poco successo, un rassemblement tra le forze conservatrici per un’area nazionale, moderata, anticomunista – quella che, anni dopo, Almirante battezzerà come Destra Nazionale – che lo potesse sottrarre dalle volubili inclinazioni del partito di Moro e di Fanfani nello scegliere i propri alleati tra le diverse forze di quel caleidoscopio rappresentato dallo schieramento politico alla sua destra, secondo le spregiudicate convenienze del momento.

Copertina

Si rivelerà questa, tuttavia, una strategia politica di assai corto respiro. Come dimostra ciò che avvenne, in Sicilia, con la partecipazione del Movimento Sociale alle giunte di Silvio Milazzo e di Benedetto Majorana della Nicchiara, dall’ottobre 1958 al giugno 1961, o con l’appoggio parlamentare ai governi nazionali presieduti da Zoli, Segni e Tambroni oltreché con il coinvolgimento missino nella elezione di Gronchi, a capo dello Stato. La inaudita alleanza con i comunisti, varata nel corso dell’operazione Milazzo, che servirà soltanto a un pezzo della DC per scardinare il tentacolare sistema di potere incarnato da Fanfani, tranne poi ad allearsi con gli stessi avversari di Milazzo per dare vita a una sbiadita giunta di transizione come quella di Majorana della Nicchiara nonché, in campo nazionale, le offerte di voto parlamentare, accettate esclusivamente per cinico calcolo da parte della Dc, rimanderanno semmai l’opportunità per il Movimento Sociale di sciogliere fino in fondo i nodi della propria essenza politica. Tanto più che “gli epigoni – come sostiene lo storico delle idee, Alessandro Campi – dell’esperienza mussoliniana, in quanto tali, avevano difficoltà a presentare se stessi come uomini di una destra (liberale, conservatrice, nazionalistica) che il fascismo aveva combattuto, assorbito e inverato”. Il gruppo dirigente missino non ha, del resto, intenzione di dichiarare come obsoleto l’armamentario ideologico da cui è nato il partito, quello cioè della Repubblica di Salò, che rievoca il patrimonio ideale e spirituale del fascismo socialisteggiante delle origini, senza però fare i conti con le degenerazioni del regime fascista, e che  Almirante non esiterà ancora a rivendicare in una intervista al Corriere della Sera del 1987: “Io sono un fascista, riferendomi al Fascismo – movimento e non al Fascismo – regime”. In realtà, è quello che piace credere ai nostalgici e soprattutto ai tanti giovani che vedono in quella esperienza votata all’estremo sacrificio, da parte di molti coetanei repubblichini, la esemplificazione di una fulgida coerenza con le proprie idee, sprezzanti della sconfitta perché fedeli ai propri valori etici e spirituali. Non per niente, i giovani missini – in particolar modo in Sicilia, dove nel corso del tempo, si affermeranno come giovani leader nazionali Nicosia, Lo Porto, Tricoli, Virzì – rappresentano, sì, una rigenerante linfa per il partito, mietendo successi negli organismi rappresentativi della scuola e dell’università, ma parimenti una irriducibile, ardita opposizione ai suoi dirigenti.

Nello Musumeci

Ciò finirà per far oscillare il Movimento Sociale tra la routine parlamentare e quello che Renzo De Felice definisce “misticismo rivoluzionario apocalittico”, che affonda le radici in una certa tradizione rivoluzionaria non solo italiana ma europea (secondo De Felice, infatti, i concetti fascisti di patriottismo, “uomo nuovo” e altri ancora, sono ricollegabili a una concezione dell’universo e della società di tipo giacobino). Con il risultato che, sebbene la richiesta di maggiore legalità nelle istituzioni e della elezione diretta dei vertici degli enti locali e della più alta carica dello Stato trovino ampi consensi nell’opinione pubblica, il partito si troverà spesso incerto tra il proprio abito istituzionale e la propria permanente divisa ideologica, che lo spinge sovente a non mettere bene a fuoco la sua azione politica, chiuso nell’autocompiacimento della propria storia e delle proprie idee, che se può valere per sottrarsi alla perdita di una propria specifica identità, diventa altresì causa profonda del suo rifiuto a modificarsi. Così nel mare aperto di una società che, a partire dagli anni ’60, è in continua, tumultuosa evoluzione, il partito di Michelini, fino al giugno 1969, e quindi, di Almirante si rivela incapace d’interpretare i segnali di cambiamento, che fanno sì che esso sia tagliato fuori – e con esso i giovani missini – dalla dirompente forza di cambiamento del movimento del ’68 e, per logica conseguenza, dalla battaglia referendaria del 1974 per il divorzio, facendo da spalla – specialmente in Sicilia – alla velleitaria battaglia fanfaniana di egemonia della Dc e all’ala più oltranzista del clero cattolico. Ma neppure quando il vessillo del principio della supremazia dello Stato viene brandito dalla quasi totalità del mondo politico (se si eccettuano i socialisti e i radicali) nel corso del sequestro di Aldo Moro, sembra essere quella l’occasione per imprimere una nuova direzione di marcia alla politica missina, dato che in quei frangenti non si rafforzeranno affatto le ragioni dello Stato, ma le si utilizzeranno subdolamente per biechi, strumentali calcoli politici: “Una insospettata – scrive Leonardo Sciascia nell’affaire Moro – e immane fiamma statolatrica sembra essersi attaccata alla DC e possederla. Moro, che continua a pensare come pensava, ne è ormai un corpo estraneo: una specie di doloroso calcolo biliare da estrarre – con l’ardore statolatrico come anestetico – da un organismo che, quasi toccato dal miracolo, ha acquistato il movimento e l’uso del senso dello Stato”.

Gianfranco Fini

Il delitto del leader democristiano sarà, del resto, l’inizio della lenta agonia della cosiddetta Prima Repubblica, nel corso della quale il Movimento Sociale languirà – anche in termini elettorali – nell’inerzia delle sue contraddizioni. E sebbene, nel 1992, Mani Pulite avesse sconvolto quello che, in politica, era stato fin dal dopoguerra l’ordine naturale delle cose e, per il Movimento Sociale, era stato fin troppo facile cavalcare l’onda giustizialista in nome di quella lotta alla partitocrazia che lo aveva visto sino ad allora estraneo ai misfatti del potere, esso non potrà tuttavia non fare i conti con una continuità ideale che persisteva pesantemente a  gravare sui suoi destini politici. Non era sufficiente, infatti, venir fuori dal ghetto politico dentro il quale per quasi cinquant’anni era stato cacciato, ancorché avesse condotto a Roma il segretario nazionale, Gianfranco Fini, fin quasi la soglia del Campidoglio e, in Sicilia, Nello Musumeci a conquistare la provincia di Catania e, un manipolo di candidati missini, la fascia tricolore di sindaco. Era ormai improcrastinabile uscire dalle tentazioni della propaganda, da quel “non rinnegare, non restaurare” che se era servito per non liquidare – anche dal punto di vista legale – il Movimento Sociale come una semplice formazione neofascista, lo aveva nondimeno costretto in una inanità politica che, dopo oltre quarant’anni dalla sua costituzione, gli impediva di presentarsi all’elettorato italiano come una rassicurante formazione politica liberaldemocratica, di destra conservatrice. L’incalzare concitato degli eventi – un’intera classe politica finita sotto processo – richiedeva ormai il cruciale passaggio del guado, una radicale cesura con il passato, da dover far pronunciare a Fini che: “l’antifascismo è stato il momento storicamente essenziale perché tornassero in Italia i valori della democrazia” (intervento alla Camera sulla fiducia al primo governo Berlusconi). Un’operazione questa che si sarebbe rivelata essere non soltanto di mera alchimia politica – con l’approdo ad Alleanza Nazionale nel gennaio 1995 – giacché un partito così fortemente identitario vedrà, nel passaggio a un panorama politico post ideologico privo di qualsivoglia respiro ideale, spegnere l’afflato che aveva unito una intera comunità di militanti che, dentro il Movimento Sociale, aveva vissuto la propria passione politica – non senza talvolta rischi per la propria incolumità fisica – con l’orgoglio di rappresentare semplicemente l’altra parte della barricata da presumersi, in ragione di tale drastica scelta, diversa dagli altri. In quest’ottica, risiede – a nostro avviso – l’importanza della testimonianza resa dal libro di un consumato leader qual è Musumeci, che non è ovviamente soltanto sentimentale bensì emblematicamente politica e che, nell’attuale smarrimento della destra vieppiù in bilico tra i rigurgiti razzisti della Lega e le imbarazzanti ambiguità di Forza Italia, restituisce il senso più profondo di una esperienza corale la quale, in una temperie come la nostra di ottusa antipolitica, richiama alla vocazione ideale di chi nella quotidiana professione di fede politica seppe trovare la propria dimensione di uomo e di cittadino. E di questo, al di là dei differenti convincimenti di ciascun lettore, non si può non essere grati all’autore per aver riesumato protagonisti oltre che vicende politiche e umane che rischiavano altrimenti di finire nelle obliate pagine di Storia.

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