Il “don” che esterna sui social tra evangelizzazione e scivolate. Tanti i casi: da Guidotti a Pieri

Il “don” che esterna sui social tra evangelizzazione e scivolate. Tanti i casi: da Guidotti a Pieri
21 novembre 2017

Prima è stata la volta di don Lorenzo Guidotti che dal suo account Facebook se l’è presa con una ragazza vittima di stupro, sostanzialmente dicendole che se l’era cercata (sono seguite la presa di distanza della diocesi di Bologna e le scuse del sacerdote stesso). Poi, sempre a Bologna, sempre su Facebook, un altro sacerdote, don Francesco Pieri, ha colto l’occasione della morte di Totò Riina per attaccare Emma Bonino e la sua battaglia per il diritto delle donne ad abortire: “Ha più morti sulla coscienza lei o il capo della mafia?”. Ma si potrebbero citare molti altri esempi, di questi giorni o di anni fa, da nord a sud, dagli attacchi al Papa alle polemiche su questioni di attualità. Il “don” all’epoca dei social network ha un’agorà potenziale molto più ampia per diffondere “la buona novella”, ma rischia di fare scivolate molte mondane, incorrere in incidenti diplomatico-ecclesiali, o addirittura, poco cristianamente, scandalizzare e ferire. Il tema non è nuovo. Le università pontificie scandagliano da tempo potenzialità e limiti dell’era internet (basti pensare ai lavori che ormai quasi dieci anni fa il gesuita Antonio Spadaro, ora uno degli uomini più vicini al Papa, dedicò alla “cyberteologia”). In tutto il mondo la rete, i blog, la versione digitale di televisioni, radio e testate sono stati subito al centro dell’attenzione della galassia cattolica, non per ultimi, paradossalmente, gli ambienti più conservatori (i lefebvriani, per dire, amanti della messa in latino, sono tra i più agguerriti utilizzatori del web).

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Il Vaticano sta ultimando un sito internet di ultima generazione per l’informazione online, ci sono parecchi cardinali su Twitter, il Papa è secondo solo a Donald Trump sul social network di microblogging, e più volte si è videoconnesso con Google hangout a ragazzi di tutto il globo. Il quadro, certo, è chiaro-scuro, e il Papa è il primo a saperlo. “Internet”, ha scritto nel messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali del 2014, “può offrire maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una cosa buona, è un dono di Dio. Esistono però aspetti problematici: la velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta”. Nel messaggio del 2016 ricordava che “non è la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i mezzi a sua disposizione”. E in quello dell’ultimo anno esortava “ad una comunicazione costruttiva che, nel rifiutare i pregiudizi verso l’altro, favorisca una cultura dell’incontro”. La giornata delle comunicazioni del prossimo anno, peraltro, sarà dedicato ad una altra questione spinosa, le “fake news” (“Notizie false e giornalismo di pace”, anche qui un chiaro-scuro). Quanto alla responsabilità dei singoli sacerdoti, la questione ovviamente non riguarda il Vaticano (che non può né vuole controllare la vita dei 466.215 sacerdoti e dei 5.304 vescovi che ci sono nel mondo), e neanche la Conferenza episcopale italiana quanto, semmai – Bologna docet – la singola diocesi, il singolo ordinario, oltre alla coscienza del singolo prete. Siamo in democrazia, e, nei limiti della legge, ognuno si prende la responsabilità di ciò che dice e scrive. Altro è che, all’interno della Chiesa, sia maturata la consapevolezza – anche a fronte di casi come quelli di Bologna – che un sacerdote presente sui social network debba ricordarsi, quando si mette alla tastiera, l’ordinazione che ha ricevuto e il ruolo che riveste nella società.

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Sollecitato sul tema, don Alessandro Palermo, giovane sacerdote siciliano della diocesi di Mazara del Vallo, parroco della Chiesa di San Matteo a Marsala, e grande esperto di comunicazione al tempo del web, parte da una domanda: “C’è uno stile “sacerdotale” quando ci si connette in Rete? Paolo di Tarso avrebbe risposto subito con un sì”. Don Palermo è autore del libro “La Chiesa mediale” e del blog “Elementi di pastorale digitale”, ha mappato la presenza delle diocesi italiane sui social network. Nella sua lettera ai Romani, spiega san Paolo “dice che ‘come apostolo delle genti, io faccio onore al mio ministero’ (Rm 11,13). Lui, infatti, sapeva bene che la comunicazione, l’evangelizzazione, anche quando avvengono attraverso l’uso della lettera (di un media) devono “fare onore al proprio ministero”. Pertanto, quando ci si connette con il proprio social network (un reale scenario pubblico) occorre sempre fare onore al ministero che si indossa. Online si è sempre sacerdoti, foto e post non diano mai nessuna forma di scandalo e siano sempre conformi al ministero di cui si è investiti. Essere online non vuol dire entrare in una situazione virtuale in cui posso mostrarmi come voglio. Essere online vuol dire riflettere se stessi, mostrarsi all’altro, che non vediamo ma che sentiamo, per come si è, senza troppi se e senza troppi ma, a cominciare dalle azioni social del ‘mi piaci’, del ‘condividi’ e dei commenti. Ci sono pagine e contenuti che un sacerdote non dovrebbe linkare o commentare. Nella società odierna continua ancora a insistere la visione che i media, i social media, siano dei meri strumenti distaccati dalla realtà e il più delle volte si continua a usarli con molta superficialità. C’è un’enorme assenza di educazione mediale soprattutto tra gli adulti”. Don Alessandro Palermo declina questo ragionamento in tre punti che rispondono alle domanda su “come può un sacerdote in Rete deve ‘fare onore al suo ministero’?”.

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Primo, “convincersi che per ‘stare’ online non occorre solamente connettersi alla rete, bisogna rendersi conto che lo schermo del mio smartphone dovrebbe riflettere sempre ciò che si è: per far si che la comunicazione sia efficace, priva di ogni fake, occorre metterci ‘la faccia’ in quello che si dice e che si fa online. Un sacerdote quando comunica online lo fa sempre in quanto sacerdote”. In secondo luogo, “bisogna rendersi conto che la relazione digitale, pur essendo reale, non è uguale a quella fisica. Cambiano le dinamiche e i linguaggi. Quando sento il bisogno di mostrare una foto o di scrivere qualcosa che mi riguarda la prima cosa da fare è chiedersi: l’altro nel guardarla o nel leggerla sarà in grado di decifrare il contenuto che desidero condividere? Il post o la foto pubblicata riflettono positivamente il mio ministero oppure lo rendono ridicolo e annebbiato?”. Terza questione, “non tutto quello che si pensa e che facciamo per forza bisogna metterlo in Rete. Se il fine comunicativo si riduce a diventare popolari e a ricevere like e condivisioni, il nostro essere online rischia di diventare una pietra d’inciampo per l’altro. La logica, anzi il desiderio, del ‘perché’ scelgo di comunicare in Rete – conclude don Palermo – dovrebbe essere quella di condividere e di far partecipare all’altro ciò che si è e ciò che si possiede veramente senza maschere e ritocchi, anche a costo di non ricevere like e condivisioni, facendo sempre ‘onore’ al Ministero e all’immagine stessa della Chiesa”. Anche il Papa, del resto, lo ha detto chiaro e tondo. Anzi, lo ha scritto su Twitter: “Non sottovalutiamo il valore dell’esempio perché ha più forza di mille parole, di migliaia di ‘likes’ o retweets, di mille video su Youtube”.

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