L’accusa: la “mediazione occulta” ha prodotto “dei risultati devastanti”

L’accusa: la “mediazione occulta” ha prodotto “dei risultati devastanti”
Il sostituto della Procura Nazionale Antimafia, Nino Di Matteo
14 dicembre 2017

Oggi, nell’udienza numero 202, a oltre quattro anni dall’avvio del dibattimento, la Corte d’assise di Palermo presieduta da Alfredo Montalto ha dichiarato chiusa l’istruttoria dibattimentale, dando la parola al pubblico ministero per l’avvio della requisitoria. L’inizio della discussione conclusiva e’ stata affidata al pm Roberto Tartaglia. Accanto a lui sono presenti il pm Vittorio Teresi e i sostituti della Procura Nazionale Antimafia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. “Questo processo ha avuto peculiarita’ rilevanti che ‘lo hanno segnato fin dall’inizio. La Storia ha riguardato e riguarda i rapporti indebiti – ha esordito il pm – che ci sono stati tra alcuni esponenti di vertice di Cosa nostra e alcuni esponenti istituzionali dello Stato italiano. Una storia che al di la’ della retorica formale secondo cui le istituzioni combattono con fermezza cosa nostra, la verita’ che e’ emersa, secondo il pm e’ un’altra. E cioe’ che una parte importante e trasversale delle istituzioni, spinta da ambizione di potere contrabbandata da ragion di stato, ha cercato e ottenuto il dialogo e poi il parziale compromesso con l’organizzazione mafiosa”. Secondo l’accusa questa “mediazione occulta” ha prodotto “dei risultati devastanti: sono stati la realizzazione dei desideri piu’ antichi e reconditi di cosa nostra che cercava proprio quello: non la repressione ma la mediazione”. “Riina, Provenzano, oggi deceduti, Brusca e Bagarella, hanno commesso la condotta violenta – avviata con l’uccisione di Lima, proseguita con Capaci, via D’Amelio e poi gli attentati in Continente – da cui ha avuto inizio il processo di mediazione che noi contestiamo nel capo di imputazione di violenza e minaccia a organi politici dello Stato”, ha aggiunto il pm Tartaglia, nel corso della requisitoria.

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Nell’aula bunker del carcere Ucciardone ha spiegato che questo progetto viene plasticamente descritto dal defunto capo dei capi, Salvatore Riina che il 28 agosto 2013 – mentre viene intercettato in carcere – con le sue parole descrive l’essenza degli imputati “mafiosi” di questo processo: “Io al governo gli devo vendere i morti, gli devo dare i morti…”. L’ammorbidimento dell’azione repressiva dello Stato – ha proseguito – viene messo sul tavolo della trattativa per far cessare l’azione violenta e stragista messa in atto da cosa nostra. La persona offesa e’ il Governo della Repubblica. I mediatori sono i politici, come Dell’Utri e gli ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno. La mediazione – ha aggiunto – e’ avvenuta in modo clandestino e in violazione di qualunque regola”. Secondo l’accusa il capo di imputazione parte dal 1992 ma occorre comunque considerare, anche gli ultimi sei mesi, del 1991. Lo spartiacque infatti e’ il maxi processo e la conferma o meno in Cassazione. “Dal 1986 al 1991 assistiamo alla crisi irreversibile tra cosa nostra e i suoi referenti politici tradizionali. In questo arco una sorta di stand by, di attesa, imposta da Salvatore Riina che su un esito favorevole a cosa nostra in Cassazione si e’ giocato la faccia”. Le recriminazioni verso il vertice politico iniziano quando si capisce che dalla Cassazione non arrivera’ la notizia attesa. Il pentito Giuffre’ ha sentito dalla voce di Riina, in una riunione a Dicembre 1991, l’elenco degli obiettivi per la reazione di cosa nostra: “Oltre a Falcone, i politici Salvo Lima, Calogero Mannino, Vizzini e Ando’ – ha sostenuto il pm davanti alla Corte d’assise – “. Una riunione durante la quale, Riina, stende un progetto esecutivo che prevede anche l’abolizione degli ergastoli, la questione dei collaboratori di giustizia e l’enorme pressione proveniente dal mondo delle carceri.

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