Una nuova affascinante ipotesi: Leopardi non era depresso ma affetto da una malattia genetica

Una nuova affascinante ipotesi: Leopardi non era depresso ma affetto da una malattia genetica
17 gennaio 2019

Una nuova affascinante ipotesi: Leopardi non era depresso, ma affetto da una malattia genetica, la spondilite anchilopoietica giovanile, una malattia rara che insorge dopo i 16 anni. Lo rivela un medico monzese, Erik Sganzerla, 68 anni, direttore della Neurochirurgia dell’ospedale San Gerardo-Università Bicocca, che ha ricostruito la storia attraverso le lettere scritte da Leopardi. Si riapre così un cold case. Il medico ha scritto il volume “Malattia e morte di Giacomo Leopardi”, presentato ieri alle 20.45 nell’aula magna del liceo Mosè Bianchi in via della Minerva, a Milano. Una passione, quella del medico nei confronti di Giacomo Leopardi, nata sui banchi di scuola. Qualche lettera di Leopardi è nella sua collezione e sono state pubblicate nel volume.

È partito proprio dalle 1.969 lettere che compongono la corrispondenza del poeta il neurochirurgo, ricostruendo le fasi della malattia di Leopardi, dall’insorgere dei primi sintomi all’evoluzione, ed è così arrivato a ricostruirne la cartella clinica e a formulare la nuova ipotesi, che di fatto smonta le precedenti da quella di “Morbo di Pott” a quella di spondilite tubercolare. Ecco che il dottore ha studiato i sintomi della malattia di Leopardi: disturbi urinari, deformità spinale, disturbi visivi, astenia, gracilità, bassa statura, disturbi intestinali e complicanze polmonari e cardiopolmonari. Da qui la patologia di cui era affetto lo scrittore, secondo il medico monzese, una malattia genetica rara: la spondilite anchilopoietica giovanile che ancora oggi si manifesta con un’incidenza di 5 o 7 casi ogni 100 mila persone.

Il fratello Carlo di Leopardi – nelle lettere – lo descrive come un bimbo vivace, leader nei giochi. Poi dopo i 16 anni insorge la malattia, proprio come risulta dalle parole del marchese Filippo Solari che scrive di aver lasciato “Giacomino di circa 16 anni sano e dritto” e di averlo poi ritrovato dopo 5 anni “consunto e scontorto”. Contribuirono ad aggravare la sua deformazione, i sette anni di studio nella biblioteca paterna, ai quali si aggiunsero problemi alla vista, disturbi intestinali e delle complicanze cardiopolmonari che lo portarono alla morte a 39 anni, avvenuta il 14 giugno 1837. In più l’indagine portata avanti Erik Sganzerla esclude la diagnosi di “depressione psicotica” come riportano al contrario degli studi recenti. Il medico lo esclude perché non si può parlare di depressione in un uomo che come lo scrittore viaggiò molto sino alla fine dei suoi giorni e che soprattutto continuò a creare moltissimo.

 

“L’infinito” di Giacomo leopardi compie duecento 

Quindici endecasillabi sciolti, una lirica che appartiene a una serie di scritti che sono stati pubblicati nel 1826, dal titolo: “Idilli”. Una poesia scritta tra il 1818 e il 1819: “L’Infinito” di Giacomo leopardi che compie duecento anni.

Offre al lettore attento sensazioni, emozioni e riflessioni. Un idillio che esprime il desiderio del giovane poeta di voler godere dell’immensità. “L’infinito” di Leopardi però non ha età, proprio perché esprime stati d’animo che appartengono a tutti. È una tra le poesie più famose della letteratura non solo italiana, ma mondiale. Scritta di getto dal poeta di Recanati, rappresenta una sorta di riflessione intima e molto personale, frutto della sua speciale sensibilità.

Leopardi è e rimarrà un genio, inutile definire la sua intelligenza straordinaria e poliedrica. Ebbe sin da giovane una malattia che lo portò ad una graduale deformazione fisica e che gli provocò una sofferenza interiore e una spiccata sensibilità. Depresso e solitario, dall’animo insoddisfatto, ma dal genio creativo, che ha donato al lettore dei capolavori. La sua poesia contiene qualsiasi cosa: il vicino e il lontano, il dentro e il fuori, il presente, il passato e anche il futuro. Insomma è una lettura attualissima.

 

Ecco il testo:

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suon di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.

 

La parafrasi:

Ho sempre amato questo colle solitario e questa siepe, che impedisce al mio sguardo di scorgere l’interezza dell’estremo orizzonte. Ma quando sono qui seduto, e guardo, comincio a immaginarmi spazi sterminati al di là di essa, e un silenzio sovrumano, e una pace abissale, fin quasi a sentire il cuore tremante di paura. E non appena sento il fruscio degli alberi carezzati dal vento, questa voce paragono a quel silenzio infinito: e d’improvviso nella mia mente affiora l’eternità, e tutte le ere ormai trascorse, e quella presente, viva, con la sua voce. Così il mio pensiero è sommerso in quest’immensità ed è dolce, per me, inabissarmi in questo mare.

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