Pd con l’incubo M5S. Il segretario Renzi teme il sorpasso

21 maggio 2014

Il segretario Dem deve superare il 26 per cento per fare meglio del 2009 e delle ultime politiche

L’Europa sta a guardare: mai in una consultazione dell’Unione il risultato nudo e crudo, cioè chi andrà e chi non andrà a Strasburgo, è sembrato interessare così poco. Il voto, questo voto che gli italiani esprimeranno tra quattro giorni, non si limiterà a inviare i nostri rappresentanti nel cuore dell’Unione, ma ridisegnerà la mappa della politica interna. Saranno numeri pesanti come pietre che potrebbero “stabilizzare” l’attuale esecutivo… o mandarlo definitivamente al creatore. Tutto si gioca sulla linea della sfida Renzi-Grillo. Sì, il Cavaliere questa volta, anzi, l’ex Cavaliere, rischia di rimanere in finestra, anche se i voti che sarà in grado di raccogliere potranno “spostare” notevoli equilibri. Il “numero magico” è il 30 per cento. Chi si avvicinerà a questa cifra avrà la situazione in pugno. Il Pd di Matteo Renzi, che alle Europee del 2009 aveva totalizzato il 26,15% e alle Politiche 2013 il 25,4, con un balzo avanti potrebbe confermare la leadership del governo. Al contrario se il balzo lo farà il MoVimento che, non lo dimentichiamo, nel 2013 ottenne un robusto 25,5, diventando il primo partito d’Italia, gli assetti attuali potrebbero subire notevoli cambiamenti. L’alter-ego di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio, ha detto chiaro e tondo che “se vinceremo, e non c’è dubbio che vinceremo, chiederemo un nuovo presidente della Repubblica e poi subito elezioni”. E chi potrebbe fare il candidato premier per i 5 stelle? Le voci che si sono rincorse hanno fatto sentire il bisogno a Luigi di Maio, deputato del MoVimento e vicepresidente della Camera, di smentire ogni sua possibile candidatura: “Il futuro governo 5 Stelle (che arriverà presto) lo decideremo insieme. Tutto il resto è roba da fantacalcio”, ha precisato via Facebook.

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Sarà, l’impressione è che molto di quello che regge in piedi l’oggi sia destinato a sgretolarsi: “Dopo il 25 ci sarà la resa dei conti, a elezioni terminate”, ha dichiarato nei giorni scorsi Roberto Maroni. “Sarà una resa dei conti per tutti, anche per Forza Italia, Berlusconi e la Lega. Sarà – ha aggiunto Maroni – un passaggio interessante in chiave di cambiamenti. Noi cambiamenti ne abbiamo già fatti: personalmente mi sono dimesso anticipatamente da segretario della Lega, cosa che non ero tenuto a fare ma l’ho fatto per dare la responsabilità a Matteo Salvini che sta facendo molto bene, riportando la Lega sulle barricate”.
E questo è il parere di chi sta “sulle barricate”, cioè all’opposizione. Ma non è che chi sostiene il governo la pensa diversamente. “Essere o apparire? Contenuti o annunci? Serietà o faciloneria? Competenza o incompetenza? Perizia o sciatteria? Professionalità o pressappochismo? Dovunque si volge lo sguardo, in questi primi mesi del governo Renzi ci si trova sempre sulla seconda casella”, ha dichiarato il senatore Tito Di Maggio, dei Popolari per l’Italia, compagine politica che, teoricamente, dovrebbe sostenere l’esecutivo. Ieri Di Maggio, intervenendo nella discussione sul rinvio della scadenza della Tasi, ha aggiunto: “La Tasi? Un disastro. Ma il bello deve ancora venire. Provate a leggere il dl 66, quello sull’Irpef per intenderci, troverete delle coperture che se non si trattasse di cose serie, ci sarebbe da sbellicarsi dalle risate. Siamo la settima potenza economica mondiale, forse è arrivato il momento che i ragazzini tornino a fare i ragazzini”. Alla faccia del sostegno al governo.

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Anche perché i “grandi” sono importanti, ma il gioco dei “piccoli” non va perso d’occhio, perché quando le situazioni sono in equilibrio il contributo di un “partitino” può risultare determinante. Dopo il voto del 25 si conoscerà “per riflesso” il peso specifico di raggruppamenti politici che non hanno mai testato a livello elettorale la loro reale portata. E più d’uno, nei piccoli, potrebbe essere indotto a spostarsi verso uno dei tre poli (ma non dovevano essere due?) che attualmente giganteggiano al centro della scena politica nazionale. Il “bipolarismo a tre” assomiglia al duello finale di un film di Sergio Leone, dal quale, molto difficilmente, escono tutti vivi. (Il Tempo)

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