Popolo di santi, poeti e secessionisti

6 aprile 2014

Una volta c’erano i cani killer, poi è stata la volta dei sassi del cavalcavia, quindi la mucca pazza, adesso è il momento dei movimenti secessionisti italiani. Sì perché mentre in Veneto un gruppetto improvvisato di guerriglieri, armati più di fervore che organizzazione, veniva ironicamente ammanettato da un corpo di polizia in cui servono molti meridionali e che è più vecchio dell’Unità d’Italia, nel resto del Paese sono cominciati improvvisamente a spuntare gruppetti che in maniera più o meno sensata, inneggiano alla separazione se non dall’Italia, almeno dai propri vicini. E quindi abbiamo la Romagna che vorrebbe staccarsi dall’Emilia; Valle d’Aosta, Sicilia, Sardegna, Trentino Alto Adige che, oltre ad essere regioni a statuto speciale da sempre, non hanno mai fatto mistero della propria voglia di libertà.

Il Sud Tirolo poi, è arrivato perfino a proclamare, sotto gli influssi della Lega Nord (movimento politico che sull’indipendenza c’ha costruito anni fa un successo elettorale), la propria autonomia, con tanto di referendum e autoproclamazione d’indipendenza. Come mai a noi italiani piace tanto fare i gruppetti? In parte la ragione è storica, se guardiamo alla storia dell’Italia ci troviamo di fronte a un specie di coperta cucita con brandelli di stoffe tutti diversi tra loro, che spesso venivano riuniti a forza dal potente di turno. Da fiorentino, personalmente, capisco bene questa filosofia; in Toscana tendiamo a fare gruppetti perfino tra chi abita da una parte o dall’altra di un fiume, immaginatevi cosa possiamo pensare di altre città, con cui per secoli ci siamo scambiati spadate. In parte è una questione economica, gestire in maniera autonoma i fondi della propria regione permette di mettere le mani su un discreto gruzzolo. Una eventuale secessione del Veneto permetterebbe all’autonomia locale di tenere per sé 20 miliardi di euro, soldi che invece finiscono verso Roma a finanziare non si sa bene cosa, e a sostenere un Italia che in questi anni non ha aiutato le centinaia di aziende che hanno chiuso.

Sì, perché se è vero che c’è una ragione storica e ci sono interessi economici, dietro c’è soprattutto una fortissima tensione sociale. La zona in cui è nato il focolaio di rivolta Veneto, Casale di Scodosia, è una zona che si è arricchita tantissimo e impoverita altrettanto velocemente nel corso di vent’anni, e chi prima viveva molto bene si è improvvisamente trovato di fronte a una realtà di debiti, vendite, chiusure. Una realtà inaccettabile, a cui nessuno, da Roma, ha saputo dare un senso, e quindi è una realtà che va riscritta ribellandosi, non si sa bene come, ma intanto ci si ribella, perché accettare passivamente sarebbe peggio. Certo, difficilmente l’Italia vedrà una guerra civile, ma siamo sicuri che queste pulsioni, oltre a una giusta dose di ridicolo, non meritino anche un minimo di comprensione?

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