Processo Borsellino: “Uno dei piu’ gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”

Processo Borsellino: “Uno dei piu’ gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”
Paolo Borsellino
19 luglio 2018

Nelle indagini sugli autori della strage di Via D’Amelio c’e’ stato “uno dei piu’ gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, con servitori infedeli dello Stato che convinsero piccoli criminali a trasformarsi in pentiti di Cosa nostra per costruire una falsa verita’ sull’attentato al giudice Paolo Borsellino. E’ quanto e’ emerso dalle motivazioni, depositate venti giorni fa, della sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta che nell’aprile 2017 ha concluso l’ultimo processo sulla strage del 19 luglio 1992. E le indagini continuano. Una certezza che, 26 anni dopo. da’ un valore in piu’ al giorno della memoria dell’eccidio di via D’Amelio.

La Corte d’Assise, nelle 1865 pagine critica il team che indago’ sulla strage sotto la guida di Arnaldo La Barbera, il funzionario di polizia morto per un tumore nel 2002. In particolare gli inquirenti avrebbero convinto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fornire una versione distorta dell’esecuzione dell’attentato e avrebbero messo in atto tutta una serie di depistaggi. I magistrati avanzano anche il sospetto che si sia voluta occultare la “responsabilita’ di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”. La Barbera, in particolare, sarebbe stato coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa che Borsellino usava come diario e che teneva nella sua borsa il giorno dell’attentato.

“PROCESSATE QUEI TRE POLIZIOTTI”

Le indagini, cosi’, non si fermano. La procura di Caltanissetta ha chiesto il processo di tre investigatori, quasi a cascata dal deposito delle motiviazioni. Mario Bo, dirigente che faceva parte del pool che coordino’ gli accertamenti sulla strage del 19 luglio del 1992, e gli assistenti Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo sono i tre poliziotti che avrebbero depistato, secondo quanto ritenuto dalla Procura di Caltanissetta dopo anni di indagini, l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio. Per tutti e tre l’accusa e’ di calunnia aggravata. I tre avrebbero confezionato una verita’ di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. L’udienza preliminare contro di loro si terra’ nei prossimi mesi.

Il piano aveva un movente non definito, il presunto regista e’ ormai morto: l’ex capo della task force investigativa Arnaldo La Barbera, comprimari come Bo e “esecutori” come Ribaudo e Mattei. Un piano costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti scagionati, una volta smascherate le menzogne, dal processo di revisione che si e’ celebrato a Catania. Nonostante la palese inattendibilita’ di Scarantino fosse emersa piu’ volte nei processi, davanti a decine di magistrati, inquirenti e giudicanti, la condanna arrivo’ fino in fondo. Scarantino era stato protagonista di mille ritrattazioni anche in sedi giudiziarie, ma le sue accuse avevano retto fino alla Cassazione. Erano stati ingiustamente condannati all’ergastolo Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana e Giuseppe Urso.

“INVESTIGATORI DEPISTARONO, PM NON CAPIRONO”

Il depistaggio dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio fu portato avanti grazie all'”attivita’ degli investigatori che esercitarono in modo distorto i loro poteri”, secondo la corte d’assise di Caltanissetta che parla, dunque, del “pilotaggio” delle dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino, pressato perche’ accusasse innocenti. Le sue scarse “capacita’ di reazione” furono azzerate a suon di botte e con una sorta di lavaggio del cervello, grazie alla quale il falso pentito, assieme a Francesco Andriotta e Salvatore Candura, altri falsi pentiti, indirizzo’ le indagini sulla fase esecutiva dell’attentato. Furono messe a segno “una serie di forzature, tradottesi anche in indebite suggestioni e nell’agevolazione di una impropria circolarita’ tra i diversi contributi dichiarativi, tutti radicalmente difformi dalla realta’ se non per la esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale e’ rimasta occulta la vera fonte”.

In altre parole, gli investigatori avrebbero coordinato e reso sovrapponibili i vari contributi dei falsi collaboranti, segnati da “anomalie nell’attivita’ di indagine”, non rilevate pero’ dagli inquirenti e dai giudicanti, nonostante, “nel corso della collaborazione dello Scarantino”, ci fosse stata “una serie impressionante di incongruenze, oscillazioni e ritrattazioni”. I giudici danno atto della “ritrattazione della ritrattazione e di una nuova ritrattazione successiva alle dichiarazioni” di Gaspare Spatuzza, l’ex boss di Brancaccio, che aveva definitivamente smentito Scarantino.

Responsabilita’ di La Barbera si’, dei tre poliziotti Mario Bo, Salvatore Ribaudo e Fabrizio Mattei pure, ma l’atteggiamento del falso pentito-picciotto della Guadagna e tutti i dubbi emersi su di lui “avrebbero logicamente consigliato un atteggiamento di particolare cautela e rigore nella valutazione delle sue dichiarazioni, con una minuziosa ricerca di tutti gli elementi di riscontro, positivi o negativi che fossero”. Cosa che non fu fatta, ne’ dai pm ne’ dai giudici, fino in Cassazione. Il pool inquirente era allora coordinato dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra, morto negli anni scorsi, dall’aggiunto Carmelo Petralia e dai sostituti Annamaria Palma, oggi avvocato generale (vice del Pg) a Palermo, e Nino Di Matteo, piu’ volte minacciato dalla mafia, pm del processo sulla trattativa Stato-mafia e oggi in servizio alla Dna, a Roma.

LA FIGLIA FIAMMETTA, “GRAVI ANOMALIE SENZA RISPOSTE”

“Ho cercato di chiarire tutte quelle che sono state le anomalie che hanno caratterizzato le indagini e i processi su via D’Amelio. Sicuramente la sentenza e le motivazioni hanno avvalorato quelle che sono che risulta dal Borsellino Quater. Da parte della famiglia non ci sono giudizi ma semplicemente una analisi e un racconto dei fatti”: lo ha detto Fiammetta Borsellino, ieri sentita in Commissione antimafia dell’Ars. “Parliamo di fatti accertati processualmente – ha aggiunto – non quindi una questione personale. Ma di fronte a tali anomalie non si poteva stare zitti e fare a meno di chiedere delle spiegazioni. Sono tanti perche’ che fino ad oggi non hanno avuto risposta, e fino a quando non arriveranno noi continueremo a chiedere in modo martellante il perche’ quest risposte non vengono date. Ci sono tante persone che devono dare spiegazioni delle procedere, di quello che e’ stato fatto e di quello che non e’ stato fatto o di come non e’ stato fatto. Se c’e’ un procura che ha lavorato in un momento in cui sono state fatte certe cose e queste e’ risultato che sono state fatte, purtroppo, male o addirittura non fatte, e’ giusto che quelle persone rendano conto di tutto questo. Io lo trovo assolutamente normale e degno di un Paese degno di questo nome”.

E ancora: “Nessuno delle persone direttamente interessate ci ha mai dato spiegazioni. Io penso che queste risposte si debbano non soltanto a noi ma al popolo italiano. Dopo 26 anni, “parlare di depistaggi, anomalie, di tempo irrimediabilmente perso, e’ un fallimento per il Paese, per tutti, e’ qualcosa che si commenta da sola. Non e’ una vittoria per nessuno. Il depistaggio inizia nel 1992 perche’ fatti emblematici lo evidenziano. Via D’Amelio viene trattata come una piazza nella quale potesse passare una mandria di bufali, cancellando tutti quegli elementi di importanza investigativa gia’ allora si forma un gruppo di indagine un po’ anomalo perche’ vengono dati super poteri a un poliziotto, Arnaldo La Barbera, che era anche stipendiato del Sisde; perche’ si comincia a gestire, da parte del gruppo Falcone-Borsellino, un falso pentito, dando a questo gruppo dei poteri esclusivi e sganciando la gestione di Scarantino dal controllo del Servizio centrale di protezione. Perche’ gia’ allora si forma una procura di persone di certo non eccellevano per la loro esperienza nel campo dei reati di mafia. Erano giudici giovani, come si sono definiti alle prime armi, esattamente quello che un eccidio di tale portata non meritava”.

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