Salvini cavalca il No per battezzare la destra trumpista. E puntare a leadership centrodestra

Salvini cavalca il No per battezzare la destra trumpista. E puntare a leadership centrodestra
3 dicembre 2016

Sull’onda della vittoria di Trump alle presidenziali Usa, e alla vigilia del referendum costituzionale, Matteo Salvini ha posto definitivamente sul tavolo il suo obiettivo: puntare alla leadership del centrodestra, costruita attorno a un fronte identitario, sovranista, anti Ue e anti Euro, sul modello lepenista. Il disegno è di far convergere sulle posizioni leghiste il frammentato centrodestra, pescando anche nell’elettorato che non si identifica con nessuno dei due schieramenti. Per questo la vittoria del no al referendum diventa fondamentale per la Lega: sul piano personale, perché rafforzerebbe la sua leadership interna e ridimensionerebbe la voce di chi ormai apertamente lo critica o mal digerisce il suo modo “accentratore” di gestire il movimento. Sul piano politico più generale, perché solo non uscendo sconfitto il 4 dicembre potrebbe scommettere sull’unica opzione che, al momento, sembra avere: riuscire a imporre le primarie nel centrodestra e sperare di vincerle.

Le probabilità successo di un percorso di tipo lepenista si scontrano però, almeno in questa fase, con due dati di fatto. La Lega di respiro nazionale voluta da Salvini non ha finora sfondato e viaggia sul 12/16 per cento nei sondaggi: un peso elettorale che è la metà di quello del Front National in Francia, dove appare probabile che raggiunga la sfida finale per l’Eliseo. D’altro lato la scarsa, o nulla, propensione di Berlusconi a lasciar scegliere un leader attraverso le primarie. Infine, sul piano interno, lo scontro con il presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni (e dell’anziano ex leader Umberto Bossi), convinti che la Lega senza alleanze strategiche perderebbe. L’opposto di quello che Salvini ribadisce tutti i giorni; non ci potranno essere leader imposti dall’alto; Forza Italia deve rivedere le coalizioni perché “attraverso il Ppe in Europa governa assieme al Pd-Pse. Nello quadro della governabilità del dopo voto, il ruolo strategico di “ago della bilancia” appare già occupato da Forza Italia, cioè dalla posizione dialogante che ha indicato l’ex premier nei confronti di Renzi, e che prefigura una sorta di terzo polo indispensabile per riscrivere la legge elettorale in chiave proporzionalista, come vorrebbe lo stesso Berlusconi, che punta a portare la legislatura a scadenza, per un voto del 2018 con maggiori chance di “pesare” nel futuro parlamento. Un altro buon motivo questo, nell’ottica di Salvini, per scongiurare il rischio di una Lega isolata e fuori dai giochi che contano, con l’unica mossa apparentemente a disposizione: giocarsi il tutto per tutto con le primarie facendo asse con Giorgia Meloni e vincerle, sperando che arrivi a soffiare anche in Italia il vento che ha portato a sorpresa al successo di Trump e a l’amica Le Pen alla possibile sfida finale in Francia.

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Chi è vicino a Salvini assicura che non porterà mai la Lega ad un’alleanza con Berlusconi se questi scegliesse “l’inciucio”. Per la Lega, almeno sulla carta, non rimarrebbe allora che un solo possibile interlocutore: il movimento 5 Stelle. Anche i rumors dei giorni scorsi su un progetto di future intese le due formazioni, accomunate dall’antirenzismo e dalle critiche all’euro e alla Ue, dal sostegno all’Appendino e alla Raggi, non sembrano avere molte chance di realizzazione. Già diverse volte, si ammette in ambienti leghisti, Salvini ha cercato una sponda con Grillo. Senza successo. Fino a portare la leadership leghista a sospendere i tentativi di contatto. Dell’eventuale vittoria del no, comunque, è probabile che ad incassarne il dividendo “politico”, possa essere più Grillo che la Lega stessa, se non altro per il maggior peso elettorale del Movimento cinque stelle. Una vittoria del sì complicherebbe la situazione. Intanto per la sconfitta in sé, da cui Salvini, che si è spero moltissimo in campagna elettorale, uscirebbe indebolito anche sul piano politico. E poi per il possibile rafforzamento delle voci critiche interne, anche se difficilmente verrà messa in discussione la sua leadership. Il 16 dicembre scade comunque il suo mandato da segretario federale. E anche se Salvini oggi “è la Lega, senza di lui è finita”, come i più dentro al Carroccio sostengono, ci sarà chi chiederà conto dei risultati concreti finora ottenuti – sconfitta di Milano in primis, ma anche gli insoddisfacenti riscontri al centro e al sud – e prenderanno forza i militanti che Bossi cita in continuazione: “la Lega non ne può più di sentir parlare di partito nazionale”, sentimento diffuso negli ambienti del leghismo puro e duro di radice identitaria e autonomista, forte soprattutto in Veneto ma anche nelle valli lombarde. Tutti temi, compresi i malumori per una guida considerata da alcuni troppo accentratrice e la conseguente scelta di uno staff considerato da alcuni di giovani fedelissimi non all’altezza del compito, che potrebbero essere oggetto di scontro al congresso che si terrà, come ha promesso lo stesso Salvini, “entro l’inverno”.

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