Teatro Massimo, l’Opera va al Cinema con John Turturro

ph © rosellina garbo
18 ottobre 2018

E’ un Rigoletto che ammicca alle produzioni cinematografiche holliwoodiane questo prodotto da John Turturro per il Teatro Massimo di Palermo e in scena in questi giorni sino a domenica 21. Il ci-neasta italo americano, qui alla sua prima esperienza operistica, non rinnega le sue origini cinemato-rafiche, anzi rende omaggio ad alcuni famosissimi Dark movie con alcune citazioni stilistiche, sparse qui e là nella messa in scena palermitana.

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Da Highlander – con uno Sparafucile che nulla ha da invi-diare all’immortale Krugen, che freme e si rigenera nell’uccidere gli avversari – a Dracula di Coppola – con un Monterone in vestaglia rossa damascata e parrucca bianca su viso altrettanto pallido -, da Il senso della vita dei Monty Pyton – che le oscure presenze incappucciate che simboleggiando la Mor-te infestano il palco – al Don Giovanni di Losey, a Intervista col vampiro di Jordan. E’ infatti un Rigoletto settecentesco quello che prende corpo tra specchi, cornici dorate, parrucche e crinoline, tra decadenza di costumi e di morale.

Un Settecento perverso che fa da sfondo alle voglie libertine del Duca di Mantova, alle manovre di polverosi e vampireschi cortigiani, presenze quasi inquietanti nella loro fissa posizione a fondo del palco. La corte disegnata da Turturro e da Francesco Frigeri, sceno-grafo, insieme all’intero team di produzione – i costumi di Marco Piemontese, le luci di Alessandro Carletti, Cecilia Ligorio, coordinatrice del progetto registico, Benedetto Sicca, regista collaboratore, e Giuseppe Bonanno alle coreografie – è una corte patinata e immobile, che ricerca appunto un senso della vita nel degrado e nella lussuria, una corte destinata a dissolversi, a cadere nella polvere, sotto il peso del vizio. In tutto questo Rigoletto si aggira quasi pesce fuor d’acqua, con la sua maschera e la sua gobba – molto simile a quella del grottesco, storpio Efialte in 300 di Snyder – quasi poco incli-ne a mescolarsi ad essa.

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“O uomini, o Natura, vil, scellerato mi faceste voi”. Quello di Rigoletto è un grido, l’attestazione che lui sarebbe potuto essere ben altro, se appunto la società e la natura non glielo avessero negato. Avrebbe potuto essere, perché no, anche lui “Bello”, come il suo padrone “giovin, giocondo”. Ma no, non può essere. Se non per la figlia, Gilda. In lei è tutta la sua “speran-za”, in lei è il “culto, famiglia, la patria”, il suo “universo”. Una bambina, cresciuta sotto i suoi occhi, di cui non vuole riconoscere questa crescita, e che tiene quasi segregata se non per andare a Messa. E qui Turturro forse esagera inscenando una religiosità, in sguardi, cenni, suppellettili – come il perenne rosario nelle mani di Monterone, la Bibbia tra le mani di Rigoletto e Gilda, una Nutrice sul genere Monaca di Monza, le preghiere prima di andare a letto di Gilda – che sicuramente Verdi era ben lon-tano dal provare nel disegnare musicalmente il personaggio di Rigoletto. Essere dimenticato, male-detto, dagli uomini e da Dio. Un essere cui tutto è negato, anche l’amore: “Deh non parlare al misero del suo perduto bene”.

Un vinto che non ha alcun modo di risollevarsi, cui la sofferenza in terra non apre certo le porte del cielo “Appresso del patibolo bisogna ver l’altare, ma tutto, tutto ora scompare l’altare si dileguò”. Come esagera, sempre Turturro, affidando al coro dei cortigiani una smaccata gestualità tipicamente siculo/napoletana. Per il resto la regia del neo regista operistico scorre abba-stanza linearmente a parte qualche eccessiva staticità, forse voluta, o forse dovuta. In effetti da un regista cinematografico, considerata ormai la crescita della commistione tra Lirica e Cinema con le proiezioni in HD dai maggior teatri internazionali – il Metropolitan di New York su tutti – ci sarem-mo aspettati un lavoro maggiore su interpreti e coro. Ma come lo stesso Torturo ha avuto modo di dire “Nell’opera è tutto diverso, non scelgo io gli attori. Quando faccio un film l’interprete lo scelgo perché vicino al mio ideale del personaggio. Qui non ho potuto farlo”. Non lo avrà certo aiutato neanche il dover lavorare con due, poi tre, cast diversi, nei ruoli principali, e diversissimi tra loro nell’approccio interpretativo.

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Nel ruolo del titolo infatti George Petean in occasione della prima, Amartuvshin Enkhbat e Leo Nucci, come Duca di Mantova il venticinquenne Ivan Ayon Rivas – in sostituzione di Giorgio Berrugi, ricoverato in ospedale il giorno precedente la prima del 13 ottobre e Stefan Pop. Come Gilda Maria Grazia Schiavo, e Ruth Iniesta, che il pubblico palermitano ha già applaudito nei Puritani di Bellini ad aprile. Le differenze interpretative dei due cast sono tali da far dire che tutti hanno profuso ciò che di meglio avevano da dare ai personaggi e alla musica: chi più nella teatralità – come George Patean, accorato e drammatico, ma forse un po’ chiaro per il ruolo, o Stefan Pop e Ivan Ayon Rivas -, chi più nel canto – come Amartuvshin Enkhbat, la cui voce scura, brunita, potente, capace di ammorbidirsi e addolcirsi, ha saputo carpire i diversi stati d’animo del protagonista – chi infine in entrambi – come Ruth Iniesta il cui timbro rotondo ma adatto alle agilità di un Caro Nome riesce a disegnare l’innocenza e la curiosità, come anche la passione di una giovane che si apre all’amore e che, pur tradita, resta fedele ad esso. Completano il cast Luca Tittoto, uno Sparafucile, anche lui forse un po’ chiaro, ma imponente, Martina Belli seducente Maddalena, per timbro e presenza.

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Poi, Carlotta Vichi (Giovanna), Sergio Bologna (Monterone), Paolo Orecchia (Marullo), Massimiliano Chiarolla (Borsa), Giuseppe Toia (Ceprano), Adriana Calì (Contessa di Ce-prano), Antonio Barbagallo e Gianfranco Giordano (Usciere di corte) ed Emanuela Sgarlata (Pag-gio). Voci adeguate quindi che forse più sarebbero riuscite a dare sotto una guida più attenta alle di-namiche, che al metronomo, ed una lettura della partitura più attenta ai colori ed ai suoni come an-che al tempo: incomprensibili certe accelerazioni e tempi stretti, poco favorevoli alla resa degli inter-preti, come anche certe scollature tra buca e palco e poca omogeneità della compagine orchestrale del Massimo. Su podio Stefano Ranzani, sicuramente un veterano dell’opera verdiana, tanto da diri-gerla senza partitura, e forse per questo tendente più alla routine. Bene come sempre il Coro, in que-sto caso la sezione maschile, del Massimo e il suo Corpo di Ballo del quale tuttavia si deve com-prendere la reale efficacia coreutica all’interno della produzione.

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