Trump a Capitol Hill “cercando” l’unità. Ma sul muro non molla

6 febbraio 2019

Un’ora e 20 minuti circa. Tanto è durato il secondo discorso sullo Stato dell’unione pronunciato nella notte italiana da Donald Trump a Capitol Hill. In una Camera dove spiccava il bianco che le donne avevano deciso di indossare in onore delle suffragette (scelta opposta al nero del 2017 ispirato dal movimento #MeToo), il 45esimo presidente americano si è vantato, a volte esagerando, dei successi economici della sua America e ha teso la mano all’opposizione democratica in cerca di compromessi su varie aeree come le infrastrutture e l’abbassamento dei prezzi dei farmaci.

Persino sull’immigrazione ha chiesto un “compromesso” al fine di trovare un accordo che renda l’America più sicura. Peccato che a 10 giorni esatti dalla data in cui un’altra paralisi del governo federale potrebbe scattare dopo quella record finita il 25 gennaio scorso, le posizioni di Trump siano invariate rispetto a quelle che hanno portato allo shutdown più lungo della storia statunitense (era iniziato il 22 dicembre 2018). Sperando nell’unità in un Paese però diviso, Trump ha sostenuto che “un miracolo è in atto”. Poi ha garbatamente lanciato una frecciata a tutti coloro che stanno indagando sulla potenziale collusione tra la sua campagna e la Russia portando alla memoria affermazioni simili di Richard Nixon. Per Trump, “solo la politica e ridicole indagini di parte possono fermare” quel miracolo. “Se ci sarà pace e legiferazione, non ci possono essere guerra e indagini…dobbiamo essere uniti a casa per sconfiggere i nemici all’estero”. Nel suo discorso sullo stato dell’unione nel 1974, il 37esimo presidente Usa disse che “un anno di Watergate è sufficiente”.

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In tema di immigrazione, Trump resta convinto che lungo il confine tra Stati Uniti e Messico “costruirò un muro o una barriera fisica”. Perché là, secondo lui, è in corso una “crisi nazionale urgente”. Trump ha parlato di una “barriera intelligente, strategica, attraverso la quale si può osservare” da un lato cosa succede nell’altro. “Non è una semplice parete di cemento”, ha precisato sperando di convincere i democratici della bontà della sua idea. Tra di loro però non sono mancati i mormorii di lamentela, specialmente quando Trump ha detto che “politici e donatori ricchi spingono per aprire i confini mentre lasciano le loro vite dietro muri, cancelli e guardie”. Quelli delle loro case. Facendo dichiarazioni spesso fuorvianti – sostenendo per esempio che “quando i muri vengono costruiti, l’immigrazione illegale crolla” o che una nuova “grande carovana è in marcia verso gli Usa” – Trump ha detto di avere inviato 3.750 soldati aggiuntivi al confine meridionale della nazione “per preparasi a un terribile attacco violento”.

Spargendo paura, l’inquilino della Casa Bianca spera di mettere in un angolo i democratici. Forse la sua speranza è che l’America si sia dimenticata della doppia vittoria incassata a fine gennaio da Nancy Pelosi: la speaker democratica alla Camera, seduta alle sue spalle mentre lui parlava, non solo lo costrinse a posticipare il suo discorso a Congresso riunito ma riuscì anche a fare mettere fine alla paralisi del governo federale senza dare a Trump niente dei 5,7 miliardi di dollari che lui voleva per il fatidico muro. Nonostante tutto questo, Trump a parole è andato alla ricerca dell’unità. “Insieme, possiamo interrompere decenni di scontri politici. Possiamo colmare vecchie differenze, guarire vecchie ferite, costruire nuove coalizioni, trovare nuove soluzioni e sprigionare la promessa del futuro americano”. Famoso per il motto della sua campagna elettorale (America first), Trump ha parlato di un “potenziale illiminato” per la nazione che si può sprigionare con il nuovo Congresso. Ha invitato a “governare non come due partiti ma in quanto nazione”.

Quella da lui proposta, “non è un’agenda repubblicana o democratica ma un’agenda per il popolo americano”, un’affermazione tirata per un leader che ha creato divisioni e famoso per le sue scelte unilaterali come quelle rivendicate nel discorso, dal riconoscimento di Gerusalemme come capitale d’Israele, al ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare iraniano e alla sospensione dell’adesione al trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio (Inf) firmato da Stati Uniti e Unione Sovietica nel 1987. Parlando di Venezuela – di cui ha riconosciuto come presidente ad interim Juan Guaido – Trump ha tuonato: “L’America non sarà mai un Paese socialista”. Della Cina, ha detto che si sta lavorando a un accordo commerciale che però deve includure “cambiamenti strutturali” da parte di una Pechino che è stata avvertita: “Non può più rubare posti di lavoro e proprietà intellettuale alle aziende Usa”. E al Congresso ha chiesto, tra le altre cose, di approvare lo Usmca (l’accordo commerciale tra Usa, Canada e Messico pensato per sostituire il Nafta) e di passare una legislazione (il Reciprocal trade act) in modo tale che “se un Paese impone dazi ingiusti su un prodotto Usa, noi possiamo imporre dazi identici sullo stesso prodotto che quel Paese vende a noi”.

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