Trump tira dritto: Gerusalemme è capitale d’Israele

Trump tira dritto: Gerusalemme è capitale d’Israele
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump
7 dicembre 2017

Non importa cosa pensa la comunità internazionale, dal mondo arabo all’Europa (Italia inclusa) passando per Papa Francesco. Donald Trump ha deciso di fare di testa sua, ignorando per altro il consiglio del capo della diplomazia americana Rex Tillerson. D’altronde, a detta di molti, uno degli obiettivi del 45esimo presidente Usa è quello di far spegnere i riflettori sul Russiagate. E così Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale d’Israele e ha ordinato al dipartimento di Stato di iniziare i lavori (che richiederanno anni) per il trasferimento nella città dell’ambasciata statunitense, ora a Tel Aviv. Nessun’altra nazione al mondo ha una ambasciata a Gerusalemme.
Non a caso. Lo status della città contesa è al centro di un processo di pace, da tempo in stallo e ora ancora più difficile, tra lo stato ebraico e i palestinesi. Se Israele considera Gerusalemme come la sua capitale e ha pretese sovrane sulla sua interezza, i palestinesi a loro volta vogliono che quella città sia la capitale di un loro futuro Stato; la comunità internazionale dal canto suo vede Gerusalemme Est come un territorio occupato da Israele. Il ragionamento di Trump è così semplice da lasciare sbigottiti molti: siccome a Gerusalemme ha sede la Corte Suprema, la banca centrale, il Knesset, i ministeri e il primo ministro israeliani, è logico che la capitale dello Stato ebraico sia proprio lì. Prendendo atto di questa “realtà”, ha detto Trump dalla Casa Bianca, “è arrivato il momento” di una scelta che i presidenti – democratici e repubblicani – prima di lui evitarono di fare firmando di sei mesi in sei mesi una deroga per non riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele (cosa chiesta dal Congresso americano per legge nel 1995). La convinzione dell’immobiliarista di New York diventato leader Usa è che serve rompere con il passato. Se fino ad ora non ci sono stati passi avanti per portare la pace in Medio Oriente, è la tesi, che senso ha ripetere le stesse scelte? “Dopo oltre due decenni di deroghe, non siamo affatto più vicini a un processo di pace duraturo tra Israele e palestinesi. Sarebbe una follia pensare che ripetere la stessa identica formula produrrebbe ora un risultato diverso o migliore”, ha affermato Trump.

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Ecco allora che ha optato per quella che David S. Rohde, analista di Cnn e direttore della versione online del New Yorker, ha definito una mossa “per niente necessaria”. Così l’inquilino della Casa Bianca mantiene “la promessa semplicistica” fatta in campagna elettorale, che come la costruzione del muro lungo il confine tra Usa e Messico, non porterà ad alcun risultato concreto se non al compiacimento della sua base elettorale. Anche per Martin Indyk, ex inviato speciale dgli Usa per la pace tra Israele e Palestina e ora alla Brookings Institution, Trump sta cercando di soddisfare i suoi elettori più fedeli ma “non comprendendo l’importanza di Gerusalemme, sta giocando con il fuoco”. Come ha detto ai media Usa Daniel C. Kurtzer, ambasciatore americano in Israele dal 2001 al 2005, la credibilità di Washington è stata compromessa e “ci vorrà molto tempo per riconquistarla”. Basti notare le pesanti critiche giunte da tutte le parti. La Turchia – membro Nato e uno dei due Stati arabi che hanno relazioni diplomatiche formali con Israele (l’altro è la Giordania) – ha parlato di una decisione “irresponsabile e illegale”. Amman ha denunciato come “violazione del diritto internazionale” l’annuncio del leader Usa. L’Egitto ha condannato la scelta di Trump. Per il presidente palestinese Abu Mazen si tratta di “misure deplorevoli e inaccettabili” che minano ogni sforzo per la pace. Stando ad Hamas, il movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza, ora si aprono “le porte dell’inferno”. L’Organizzazione di Liberazione della Palestina sostiene che Trump abbia “distrutto” la soluzione dei Stati a cui, secondo l’Onu, “non c’è un’alternativa”.

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Su questo, Trump ha scaricato le responsabilità alle parti coinvolte: “Gli Stati Uniti sosterranno una soluzione dei due Stati se loro sono d’accordo”. E se il presidente Usa ha invocato il mantenimento dello status quo nei luoghi sacri di Gerusalemme onorati da ebrei, cristiani e musulmani (citando solo il Monte del Tempio), ci si domanda a che titolo gli Usa si possano ricandidare per guidare il processo di pace. Trump ha detto che gli Usa “non stanno prendendo una posizione su nessuna questione finale, inclusi i confini di Israele a Gerusalemme o quelli contesi”. Di nuovo, sono noccioli duri che spetta a israeliani e palestinesi risolvere. Peccato che per il successore di Barack Obama “Israele è una nazione sovrana che ha il diritto come ogni altra nazione sovrana di determinare la sua capitale. Riconoscere questo come un fatto è una condizione necessaria per raggiungere la pace”. Ora però lo spettro di nuove tensioni si fa più reale. E per Abu Mazen, gli Usa non possono più svolgere il ruolo di mediatori. Trump invierà nei giorni a venire il vicepresidente Mike Pence nella Regione per fare capire che Washington “resta impegnata a lavorare con i suoi partner nel Medio Oriente”, anche per “sconfiggere il radicalismo che minaccia le speranze e i sogni delle generazioni future”. Con Trump, però, il sogno di una pace in Medio Oriente – per chi davvero la vuole – sembra diventato irrealizzabile. L’unico a festeggiare è il premier israeliano Benjamin Netanyahu: per lui quello odierno è un “giorno storico”.

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