Storico referendum per il regime presidenziale, Erdogan punta al 2023

15 aprile 2017

la Turchia domani vota il più importante referendum della sua storia. In ballo c’è l’abolizione dell’attuale sistema parlamentare che ha accompagnato la tradizione politica – e democratica – del paese per 94 anni. Al suo posto verrebbe introdotto un controverso sistema presidenziale, definito “alla turca” perché non simile a nessun altro modello al mondo e che secondo i critici della riforma segnerebbe l’inizio del governo di un solo uomo al potere. La riforma è stata perseguita già a partire dal 2007 dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Ma i seggi parlamentari del partito della giustizia e dello sviluppo (akp, al governo) sono sempre rimasti insufficienti per raggiungere il numero minimo di 330 voti a favore per portare l’emendamento costituzionale a referendum. L’obiettivo è stato raggiunto solo lo scorso gennaio, dopo che il nazionalista mhp (quarto partito del parlamento) ha deciso di approvare la riforma. Da quando è giunto al potere nel 2002, l’Akp non ha mai perso una elezione – fatta eccezione per le sole consultazioni del giugno 2015 dove ha avuto il 40,8% dei voti – ed ha mantenuto sempre il 50% delle preferenze. Anche per questo referendum i sondaggi indicano un simile risultato, ma le possibilità di superare il 50% delle preferenze – quale condizione per l’adozione della riforma – non risulta ancora data per certa, visto che anche il fronte del “no” si mantiene sulla stessa percentuale.

Membro della NATO dal 1952 e paese candidato per l’adesione all’UE dal 2005, la Turchia ha subito una profonda trasformazione negli ultimi 15 anni. Dopo un periodo riformista e improntato ad una maggiore democratizzazione del paese, il governo dell’AKP ha assunto un carattere sempre più nazional-islamista, andando ad escludere anche diversi “compagni di causa” – come sogliono autodefinirsi i membri dell’AKP – e facendo emergere sempre più la figura del presidente Erdogan come leader indiscusso della politica turca. Uno degli obiettivi del presidente Erdogan è infatti quello di arrivare al 2023, centenario della fondazione della Repubblica. Un traguardo che mira anche sostituire simbolicamente il fondatore della stessa repubblica, Mustafa Kemal Ataturk, con la propria figura. La modernizzazione delle infrastrutture del paese – le autostrade, i treni ad alta velocità, i ponti e i tunnel sotto il Bosforo – i “folli” progetti mastodontici sono stati accompagnati in questi anni dal sostegno ad cultura conservatrice legata ad una riscrittura della tradizione ottomana e attuata mediante il Direttorato per gli affari religiosi e numerose fondazioni pie, nonchè con la trasformazione del curriculum scolastico. Il tutto all’interno di un quadro economico sempre più incerto – dopo anni di crescita. Pur ricoprendo un ruolo essenzialmente rappresentativo e imparziale – secondo l’attuale costituzione turca – il presidente della Republica ha condotto una strenua campagna referendaria e realizzando comizi ed inaugurazioni in 40 province e partecipando a numerosi programmi televisivi per promuovere la propria riforma.

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Per come è stata condotta la campagna del “sì”, il referendum risulta però quasi trasformato in un voto plebiscitario per molti, dove l’elettore è chiamato a scegliere tra una “Turchia forte” e una Turchia in balia delle forze nemiche. All’occorrenza il fronte del “no” è stato definito “terrorista” e associato al PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e al movimento di Fethullah Gulen (responsabile secondo Ankara del tentato golpe del luglio scorso). Anche la tensione con l’Unione europea e alcuni paesi membri come la Germania e l’Olanda sono stati utilizzati per alimentare questa retorica, a cui una gran parte di media locali pro-governativi hanno dato man forte, anche per attirare i voti dell’elettorato del MHP che secondo i sondaggi non risulta sostenere il sistema messo al voto. La stessa ricerca di favori ha portato più recentemente Erdogan e il premier Yildirim a rivedere la retorica rivolta all’elettorato di origine curda, mentre i rappresentanti politici curdi – inclusi 11 deputati HDP – continuano a restare in carcere. Il Paese arriva al referendum dopo un tentato golpe – che ha portato alla morte di oltre 240 persone – e in stato di emergenza, prolungato per la seconda volta fino al prossimo 19 aprile. Gli ultimi mesi hanno finora portato all’arresto di 43mila persone, al licenziamento di oltre 136mila dipendenti pubbilci – tra magistrati, docenti delle scuole e universitari, poliziotti e militari – ad almeno 100mila indagati e alla chiusura di centinaia di media e associazioni. Seppure con un esito ancora incerto restano forti gli interrogativi sul futuro del paese, a prescindere dal risultato finale.

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