La Fed non cede agli attacchi di Trump e alta i tassi di 25 punti base

La Fed non cede agli attacchi di Trump e alta i tassi di 25 punti base
20 dicembre 2018

La Federal Reserve di Jerome Powell non si è fatta condizionare dagli attacchi a colpi di tweet della Casa Bianca di Donald Trump e nemmeno dal recente sell-off subito a Wall Street. Come ampiamente atteso, la banca centrale ha chiuso il 2018 con un altro rialzo dei tassi, il quarto dell’anno in corso e il nono da quando, nel dicembre 2015, iniziò una graduale normalizzazione della politica monetaria americana. Tuttavia, la Fed ha ridotto il numero delle strette previste nel 2019 ma non abbastanza come alcuni operatori di Borsa speravano e questo potrebbe spiegare il cambio di rotta degli indici americani. La Fed è suonata “colomba” ma non abbastanza e il suo governatore è sembrato attendista a fronte di “correnti contrastanti” che sono emerse da settembre a oggi nell’economia.

Negli Stati Uniti il costo del denaro è salito di 25 punti base al 2,25-2,5% e potrebbe salire altre due volte (e non più tre) nel 2019. Questo non fa che indicare un’istituto che continua sì ad avere fiducia nell’andamento “forte” dell’attività economica americana ma che si può permettere un po’ di pazienza andando avanti. Anche perché l’economia mondiale sta rallentando rispetto “ai forti livelli di espansione del 2017”, la volatilità dei mercati è recentemente cresciuta, le condizioni finanziarie sono diventate più stringenti e il caso Brexit resta incerto visto il suo carattere inedito “anche se non dovrebbe avere alcun impatto sugli Usa”. Per la seconda volta in meno di un mese, Powell ha fatto riferimento anche all’Italia, i cui negoziati con la Ue sulla manovra “sono stati attentamente monitorati”.

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Nel corso della sua ultima conferenza dell’anno, un appuntamento che dal 2019 seguirà ogni riunione della Fed, Powell ha chiarito che “le considerazioni di tipo politico non giocano alcun ruolo nelle decisioni e nelle discussioni della Fed”. Nulla, ha detto, “ci impedirà di fare quello che crediamo sia giusto”, dunque nemmeno gli attacchi di Trump. Il successore di Janet Yellen ha rivendicato l’oggettività delle decisioni della banca centrale e ha ribadito che la rotta dei tassi non si trova su una rotta predeterminata. Insomma, tutto dipenderà dall’andamento dei dati macroeconomici, inclusi quelli relativi all’inflazione, su cui la Fed “non ha ancora dichiarato vittoria”. Perchè se è vero che il dato è rimasto “vicino” a un tasso di crescita annua del 2%, l’obiettivo della banca centrale, nel corso del 2018 il dato ha sorpreso al ribasso “anche se di poco”.

Il tasso di disoccupazione invece “è rimasto basso”, a novembre al 3,7% corrispondente ai minimi del 1969. Secondo alcuni osservatori, non è piaciuto il fatto che c’è molta incertezza su quello che succederà in futuro, come ammesso dallo stesso Powell. I mercati volevano certezze sull’anno nuovo che nessuno, nemmeno un governatore “colomba”, può garantire viste le molte variabili in gioco. Ora agli investitori non resta che digerire quanto Powell ha cercato di spiegare. Intanto lui continuerà a seguire, come dice di fare, l’andamento dei mercati mentre la politica monetaria darà una spinta meno decisa all’economia Usa, destinata a rallentare anche per via del venire meno degli effetti degli stimoli fiscali voluti da Trump. Sulle sorti congiunturali molto dipenderà dalla capacità del 45esimo presidente americano di evitare una guerra commerciale con la Cina. Il primo marzo, quando scadrà la tregua da 90 giorni siglata con Xi Jinping, sarà il momento della verità. E la Fed sarà costretta a valutarne le implicazioni.

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