“Mi arricchisco con le Criptovalute e non dichiaro nulla”: FALSO, è ‘dichiarazione infedele’, la Cassazione ti ha fregato, è reato e ti sbattono in cella

Criptovalute (pexels) - IlFogliettone.it

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Criptovalute, quando scatta il reato tributario: ecco quando i proventi digitali diventano reddito imponibile

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8269 del 28 febbraio 2025, è intervenuta in maniera netta sul tema della tassazione dei proventi digitali, in particolare quelli derivanti da criptovalute e NFT. La decisione ha confermato che l’omessa indicazione di tali introiti nella dichiarazione dei redditi può integrare il reato di dichiarazione infedele previsto dall’art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000, se si supera la soglia di punibilità. Un tema cruciale per chi opera nel mondo digitale e della blockchain.

Il caso sottoposto alla Corte riguardava un artista digitale, autore di opere di “cybergraphic”, che aveva ottenuto ricavi dalla rivendita di NFT rappresentanti le sue creazioni. I pagamenti per queste transazioni erano avvenuti tramite criptovalute, nello specifico Ethereum. L’artista, però, non aveva indicato tali somme nelle sue dichiarazioni fiscali per gli anni 2021 e 2022, superando così le soglie previste dalla legge per configurare il reato di dichiarazione infedele.

A fronte di questa condotta, il G.I.P. aveva disposto il sequestro preventivo dei beni dell’indagato, provvedimento poi confermato dal Tribunale del riesame. L’artista ha quindi proposto ricorso in Cassazione, contestando la legittimità del sequestro e la qualificazione dei proventi digitali come redditi imponibili. La Suprema Corte ha però confermato le decisioni dei giudici di merito, sostenendo che esistono fondati indizi del reato tributario.

La Cassazione ha chiarito che, quando i proventi derivanti da attività economiche sono accreditati in criptovaluta, essi assumono natura di reddito imponibile nel momento in cui acquisiscono un valore patrimoniale esprimibile in moneta corrente. Non importa che la transazione non avvenga in euro o altra valuta ufficiale: se la criptovaluta ha un mercato di riferimento e un valore convertibile, il guadagno è tassabile.

Il fondamento normativo tra TUIR e legge tributaria

A supporto della propria posizione, la Corte richiama l’art. 53 del T.U.I.R., secondo cui costituiscono reddito da lavoro autonomo anche i ricavi derivanti dallo sfruttamento economico delle opere dell’ingegno. Inoltre, l’art. 54 dello stesso testo disciplina le modalità di calcolo del reddito in caso di corrispettivi non in denaro. Le criptovalute, in tal senso, rientrano nel concetto di “provento in natura” e sono quindi imponibili.

Un altro aspetto centrale della sentenza riguarda la definizione giuridica delle criptovalute. Il D.Lgs. n. 184 del 2021 le definisce come “valute virtuali”, cioè rappresentazioni digitali di valore che non sono emesse da banche centrali ma che possono comunque fungere da mezzo di scambio. Questa qualifica attribuisce loro una rilevanza patrimoniale e, di conseguenza, una capacità impositiva nel sistema tributario italiano.

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La rilevanza del valore di mercato nella tassazione

Nel caso esaminato, la criptovaluta Ethereum era ampiamente scambiata sui mercati digitali, con quotazioni facilmente convertibili in euro. Ciò ha consentito alla Cassazione di ribadire che, nonostante la volatilità di tali strumenti, il loro valore può essere determinato in modo oggettivo. Di conseguenza, le criptovalute ricevute come compenso costituiscono reddito, soggetto a dichiarazione e a tassazione.

In conclusione, la sentenza della Cassazione fissa un principio importante per chi opera con NFT e criptovalute: se i ricavi ottenuti da queste attività superano le soglie stabilite dall’art. 4 del D.Lgs. 74/2000 e non sono indicati nella dichiarazione dei redditi, si configura il reato di dichiarazione infedele. È dunque fondamentale che chi guadagna attraverso il digitale si attenga agli obblighi fiscali, per non incorrere in sanzioni penali.