A cinque anni dalla caduta di Muammar Gheddafi, i conflitti militari e politici in Libia hanno portato il Paese al collasso. La crisi politica e di sicurezza da una parte, e quella economico-sociale dall’altra, hanno fatto della Libia uno Stato fallito, luogo di insorgenza di radicalismi di vario tipo, incapace di sfruttare in pieno le sue enormi risorse petrolifere. Con il pericolo, segnalano gli esperti, di una prossima, imminente e grave “crisi fiscale”. Con la fine del regime del colonnello – di cui domani ricorre il quinto anniversario – i libici speravano in un futuro migliore.
Oggi, però, le aspettative sono ben più modeste: “Vivere in sicurezza, disporre di elettricità, di carburante, di un salario. E poter mandare i figli a scuola. Non chiediamo di più”, ha spiegato Mahmoud, 35enne residente a Tripoli. D’altra parte, dopo 42 anni al potere, Gheddafi ha lasciato infrastrutture vetuste, un’economia totalmente dipendente dal petrolio, una manodopera poco qualificata. Ma soprattutto, un Paese diviso, sempre più in preda a clan e milizie, con un controllo statale pressoché inesistente in moltissime delle sue regioni. Un quadro che stride con quello che l’ambasciatore designato d’Italia in Libia, Giuseppe Perrone, ha definito “un interesse superiore”: “un Paese unito, democratico, globalizzato, inclusivo”, “una Libia in cui tutti abbiano una voce”, capace di intraprendere un processo politico “che non si improvvisa, che richiede tempo e rodaggio”, ma che sia in grado di assicurare “stabilità, sicurezza e governance”.
Da un punto di vista della sicurezza, numerose sono “le sfide e le difficoltà” da superare: “la più difficile”, secondo il diplomatico italiano, è “la creazione di una forza armata unitaria” alle dirette dipendenze e sotto il controllo delle legittime autorità di governo. Il riferimento, senza citarlo direttamente, è anche e soprattutto al generale Khalifa Haftar. Se non si possono cancellare interessi e ruolo dell’uomo forte della Cirenaica, è il ragionamento degli esperti, di certo una trasposizione del modello Al Sisi in Egitto – ovvero della dittatura militare – sarebbe “un disastro” per il Paese nordafricano e porterebbe a una guerra civile lunga 15-20 anni, con la nascita di movimenti di ribellione simili a quelli dei talebani in Afghanistan. Invece, “le armi devono essere limitate alle forze armate libiche”, ha sottolineato da parte sua l’attivista Amal Alhaai, insistendo sul fatto che la sfida deve essere “la costruzione della pace” e che questa non sarà possibile “senza il dialogo fra tutte le parti”. D’altra parte, è l’opinione dell’ambasciatore di Libia in Italia Ahmed Elmabrouk Safar, “stabilità e pacificazione della Libia sono direttamente collegate a sicurezza e pace del Mediterraneo”. Un Mediterraneo che – gli ha fatto eco Perrone – “non divide, ma unisce l’Italia e la Libia”. Ed è per questo che il governo italiano si è impegnato sin dall’inizio “perché il processo politico libico fosse sostenuto in modo coerente dalla Comunità internazionale, così da evitare interessi disgregatori”. Eppure la maggior parte delle imprese straniere hanno abbandonato la Libia e il Paese sta pagando ad alto prezzo i conflitti degli ultimi anni. “L’economia libica è al collasso”, ha denunciato di recente la Banca mondiale. La produzione di petrolio, che forniva alla Libia il 95% dei suoi ricavi, di fatto è stata interrotta negli ultimi tre anni. Scesa praticamente a zero nel 2011, aveva quasi ripreso il suo livello pre-guerra per qualche mese, ma è precipitata nuovamente a partire dal 2013 a causa delle violenze nelle aree dei terminal petroliferi nel Nord-Est del Paese.
Oggi, i campi petroliferi producono appena un quinto della propria capacità, ovvero solo 335.000 barili al giorno (media del primo semestre). Questo crollo della produzione, assieme al drastico calo dei prezzi del greggio dal 2014, ha generato “una situazione economia impantanata nella recessione dal 2013”, secondo la Banca Mondiale, che ha previsto “livelli storici” di deficit pubblico. Le perdite cumulative dei proventi petroliferi sono stimate in oltre 100 miliardi di dollari (91 miliardi di euro) dall’inizio del 2013, secondo il direttore della compagnia petrolifera nazionale (NOC), Moustafa Sanalla. I ricavi del settore sono scesi al livello più basso, ad appena 2,25 miliardi di dollari (2,05 miliardi di euro) nei primi sette mesi dell’anno, secondo la Banca Mondiale. Prima della rivoluzione 2011, la vendita di greggio fruttava 50 miliardi di dollari all’anno alla Libia, che produceva 1,6 milioni di barili al giorno. La situazione è leggermente cambiata nel settembre scorso, quando le truppe di Haftar hanno preso il controllo della Mezzaluna petrolifera. L’esportazione è ripresa, seppure a rilento, e la Compagnia petrolifera nazionale ha parlato di evoluzione “positiva”. Ma la produzione non dovrebbe tornare alla sua capacità massima prima del 2020, secondo le stime della Banca mondiale. “Ci vorrà del tempo perché la crisi possa essere risolta e le entrate generate da queste esportazioni riescano a coprire le enormi spese pubbliche”, ha commentato Karima Munir, una esperta libica indipendente, invitata questa settimana ad una conferenza sulla crisi in Libia tenuta alla Camera. Per colmare il deficit, le autorità attingono sempre più a riserve in valuta estera che sono in forte calo, essendo passate dai 107,6 miliardi di dollari del 2013 ai 43 miliardi di dollari del 2016, secondo la Banca Mondiale. D’altra parte, restrizioni sui cambi e speculazione hanno fatto entrare l’economia in un circolo vizioso, i libici non si fidano delle banche e quasi tutte le transazioni commerciali sono fatte sul mercato nero. Un quadro completato dalla tendenza dei commercianti a limitare le importazioni per il timore di perdite in un mercato dei cambi molto volatile. “La situazione potrebbe peggiorare se non sarà trovata una soluzione al problema della liquidità”, ha avvertito a condizione di anonimato uno dei pochi imprenditori ancora rimasti a Tripoli.