Cinque libri del 2016: Franzen, Han Kang, Chiara Valerio, DeLillo e Foer

Cinque libri del 2016: Franzen, Han Kang, Chiara Valerio, DeLillo e Foer
30 dicembre 2016

Cinque romanzi per un possibile racconto del 2016 della letteratura. Cinque titoli che askanews vuole lasciare sotto i riflettori dei lettori, naturalmente senza pretese di esaustività.

1) ‘Purity’ di Jonathan Franzen

Che cosa succede quando un romanziere che per definizione è intellettuale e complesso riesce a trovare una voce più vasta, capace di essere popolare senza perdere la propria natura profonda? La risposta ha due livelli, il primo è generico: succede una specie di piccolo miracolo; il secondo, in questo 2016, è specifico: succede ‘Purity’ di Jonathan Franzen, che in Italia è stato pubblicato da Einaudi. Quindici anni dopo ‘Le correzioni’, capolavoro indiscutibile, ma con un alto grado di sofisticatezza (provate a rileggere il meraviglioso incipit per averne un’idea) e con in mezzo il non indimenticabile ‘Libertà’, lo scrittore americano ha trovato ora un registro e un entusiasmo di narratore che rendono il romanzo quasi cannibalesco nell’inglobare l’idea stessa di tutti i libri possibili, attitudine assai calviniana – esageriamo, ma non troppo – e trasmettono, questa volta davvero, il senso di una grande libertà, finalmente, anche per l’ossessivo e tormentato Franzen. Per questo – anche al di là dello specifico contenuto di ‘Purity’, dove accanto a capitoli straordinari non ne mancano anche di meno riusciti (ma i selfie sexy con una testata nucleare sullo sfondo sono in qualche modo l’immagine che tutti i DeLillo avrebbero sempre voluto descrivere) – il contenitore immaginato da Franzen appare così nuovo e interessante – soprattutto se lo fai essendo Franzen! – da fare di ‘Purity’ il libro dell’anno, per distacco.

Con la primaria motivazione di avere dato corpo a una metamorfosi evolutiva di uno dei più grandi scrittori contemporanei, probabilmente spinto dal desiderio (chissà quanto segreto) di farsi un sol boccone di tutti gli altri scrittori (il buon Jonathan è dichiaratamente competitivo, lo era con l’amico David Foster Wallace, figuratevi con i non amici come, per dire, un Philip Roth), ma che nei fatti fa fare uno scatto in avanti a quella che lui stesso ha sempre chiamato ‘letteratura seria’, portandola, senza snaturarla, sul terreno popolare. In sostanza creando un standard con cui, da adesso in avanti, gli altri (che per Franzen in campo professionale viene da pensare che spesso siano l’inferno, come ha scritto Sartre) saranno chiamati a fare i conti, come se si fosse passati dall’epoca delle cabine telefoniche a quelle del cellulare: non si può fare finta (anche se in Italia è probabile che si continui a lungo con il gettone, per restare nella metafora) che non sia cambiato qualcosa. ‘Purity’ non è un romanzo d’appendice, ma i romanzi d’appendice (e l’Ottocento francese qualcosa ci ha detto in questo senso) vorrebbero essere ‘Purity’.

2) ‘La vegetariana’ di Han Kang

Un romanzo profondo, disturbante, a tratti perfino ingenuo, eppure capace di incistarsi nella mente del lettore, lasciandogli poche vie d’uscita. Tra i libri che hanno segnato il 2016 va ricordato ‘La vegetariana’ della scrittrice coreana Han Kang (Adelphi), storia che si nutre di elementi tragici e che vive di una scrittura capace di realizzare il miracolo di un equilibrio apparentemente impossibile intorno alla vicenda di una donna che mette in atto una scelta intima, ma così radicale da divenire necessariamente pubblica e, se volete, universale. ‘La protagonista Yeong-hye – ci ha detto Han Kang in un incontro a Milano – ha questo desiderio: rifiutare di mangiare carne perché vuole rifiutare la brutalità degli uomini e quindi vuole diventare una pianta, crede di potersi trasformare in una pianta perché è per lei l’unico modo per non fare del male a nessuno e il solo modo in cui può salvare se stessa. Ma, ironia della sorte, in questo maniera si avvicina alla morte. Nel mondo della lei appare pazza, ma nel suo universo lei è sana, forse troppo sana e questo desiderio di azzerare la violenza la spinge in questa curiosa direzione’.

All’origine della trama del romanzo – pubblicato in prima edizione nel 2007, ma lanciato in occidente dalla vittoria del Man Booker International Prize quest’anno – la scelta della protagonista di diventare strettamente vegetariana e la rabbia che questa decisione innesca nel mondo intorno a lei, animato da un desiderio di sopraffazione, molto maschile e violento. Ma la scrittura di Han, che pure usa la lingua come un magnifico coltello capace di scorticare la pelle del lettore e sollevare dubbi e ambivalenze della miglior specie, è animata a sua volta da quello che a noi appare un fortissimo desiderio di letteratura. Che giustamente nelle pagine del libro prende forme diverse. ‘Non è sempre desiderio – ha aggiunto la scrittrice – a volte è un’agonia, una lotta per capire qualcuno, un movimento verso le motivazioni più profonde’. Ecco, l’aggettivo profondo può forse essere la chiave per addentrarsi nel mondo disturbante de ‘La vegetariana’, un luogo letterario che brucia, silenziosamente ma inesorabilmente e nel quale arde in particolare la figura bartlebiana di Yeong-hye, intorno alla quale però Han Kang sa creare anche una galleria importante, e inquietante, di personaggi secondari, dal marito alla sorella della protagonista.

3) ‘Storia umana della matematica’ di Chiara Valerio

Il panorama letterario italiano, diciamolo, a volte appare segnato da una serie di maniere e di veri e propri modi di pensare la letteratura che hanno la tendenza a scoraggiare il cambiamento. Ma, per fortuna, a volte capita anche dalle nostre parti di imbattersi in libri – e questo vale anche per molte altre forme di creatività – che lasciano spiazzati e meravigliati, che ti disorientano e poi ti abbracciano, quando meno te lo saresti aspettato. ‘Storia umana della matematica’ di Chiara Valerio (Einaudi) fa esattamente questo, forte della sua natura ibrida, difficilmente catalogabile e inesorabilmente affascinante. ‘E’ un romanzo – ci ha detto la scrittrice – costruito in biografie di sei matematici veri, che sono poi i matematici i cui teoremi ho studiato durante i dodici anni nei quali ho studiato matematica, e un matematico finto, che sarei io. Quindi il matematico fallito. Soltanto che nella vanagloria di chi scrive, ovviamente, il fallimento è il massimo raggiungimento che puoi avere, perché almeno se fallisci hai fatto una cosa. Quindi l’unica certezza ontologica che tu puoi avere è quando sbagli.
Perché significa che una cosa l’hai fatta e hai fallito’.

Il tema matematico, certo, ma anche qualcosa di ancora più profondo e consapevole, fanno pensare, guardando, leggendo e ascoltando Chiara Valerio, che in lei ci sia qualcosa di più vasto (provate a pronunciare, sottovoce, il nome di David Foster Wallace) e un afflato di quella letteratura che fa passi avanti, che scarta e ribalta, che ibrida le forme e i campi del sapere, spesso ottusamente chiusi in se stessi.’Tutti i concetti astratti – ha aggiunto la scrittrice – in realtà passano per la carne delle persone che sono associate a quei concetti, quindi separare il razionale e il sentimentale è sempre una cosa piuttosto stupida, perché dipende dall’ordine di grandezza a cui guardi le cose. Il mio professore mi diceva sempre: qual è la geometria vera? La risposta giusta è: dipende da cosa ti serve’. Quello che serve a noi, lettori, sono libri che sconvolgano il paesaggio conosciuto, che rielaborino il tutto-già-detto in un modo imprevisto. Quello che serve sono scrittori che sappiano trasmettere una passione rinnovata e sappiano dare un nuovo nome alla letteratura. Anche in un 2016 dove si è parlato tanto (troppo?) di identità segrete di scrittrici misteriose o di autori guru dello scontato, ultimamente in salsa montanara.

4) ‘Eccomi’ di Jonathan Safran Foer

C’è voluto tempo, ma pare che ne sia valsa la pena. Il ritorno al romanzo di Jonathan Safran Foer è, di per sé una notizia, ma ‘Eccomi’, pubblicato in Italia da Guanda, ha il merito reale di mostrarci un’evoluzione dello scrittore, capace di mettersi in gioco uscendo dall’immagine preconfezionata in cui il successo dirompente dei suoi precedenti romanzi lo aveva inevitabilmente confinato. Si tratta di un libro che i critici hanno definito ‘opera mondo’ e che, fin dal titolo, rimanda al paradosso biblico di Abramo che risponde, con la stessa completa disponibilità, alle richieste opposte di Dio, che gli chiede il sacrificio del figlio, e di Isacco, che ovviamente chiede a suo padre di salvarlo. ‘Il titolo – ha detto Foer – ha una reale specificità culturale riferita alla Bibbia, ma io qui volevo comunque parlare di esperienze universali, come il fatto che nessuno può essere sempre una sola persona. Non conosco nessuno che sia una sola persona, tutti quelli che conosco sono divisi tra diverse situazioni, ma generalmente si mantiene un equilibrio che funziona’.

Il romanzo, incentrato sulla crisi di una coppia di 40enni ebrei con figli, ma ricco anche di macrostorie come quelle di un devastante terremoto e una guerra in Israele, ha richiesto a Jonathan Safran Foer un decennio di lavoro e in questi anni lo scrittore ha affinato la propria crudeltà di scrittura, e ha anche allargato il campo del proprio sguardo autoriale. ‘Ciò che distingue questo romanzo dai miei precedenti – ha aggiunto – è che ora presto molta attenzione a delle piccole cose: nei miei libri precedenti c’erano grandi voci, grandi immagini, grandi gesti. Questo romanzo, che è lungo il doppio degli altri, si concentra invece molto di più sulle piccole cose’. Dalle piccole cose però, anche dai momenti devastanti della vita privata dei suoi personaggi, piuttosto che dall’irruzione della storia, il romanzo si muove verso la volontà, dichiarata dallo stesso autore, di essere un libro che parla di tutto. E per fare ciò serve una voce di ampio spettro. Quella che Jonathan Safran Foer conferma di avere mantenuto e coltivato con senso critico e voglia di andare avanti, anche su terreni più scomodi.

5) ‘Zero K’ di Don DeLillo

‘Se qualcuno mi avesse parlato di tutto questo qualche settimana fa, di questo posto, queste idee, qualcuno di cui mi fido ciecamente, penso che ci avrei creduto. Ma ora che sono qui, ora che ci sono dentro, faccio fatica a crederlo’. Ci sono frasi che sono frasi e frasi che sono qualcosa che va oltre il semplice accostamento, più o meno riuscito, di sillabe, fonemi e concetti. Ci sono frasi che riescono, come quella citata poco sopra, a dire sentimenti che normalmente appaiono troppo astratti per essere spiegati, che riescono a riassumere un momento nella sua reale incoerenza (tipica dei momenti cosiddetti ‘veri’), che riescono a valere di più, abbracciando situazioni al di fuori del contesto nel quale e per il quale sono state scritte. Frasi che sono al tempo stesso arte contemporanea e la spiegazione dell’arte contemporanea, neppure si trattasse di un led luminoso di Jenny Holzer. La citazione è tratta dall’ultimo romanzo di Don DeLillo, ‘Zero K’ (Einaudi), ennesima dimostrazione dell’importanza di questo scrittore ottantenne nel canone della letteratura del presente, canone che lui stesso ha contribuito a plasmare dai tempi di romanzi come ‘Giocatori’ del 1977, fino al più recente ‘Cosmopolis’ del 2003 (micro elenco che volutamente non include il grande romanzo di DeLillo, ‘Underworld’, in quanto in un certo senso canonico a prescindere, ma anche perché nella sua vastità storica resta anche più liquido rispetto all’urgenza definitoria di altri suoi lavori, come per esempio il troppo sottovalutato ‘Body Art’).

Nel caso di ‘Zero K’ DeLillo indaga, come aveva già fatto altrove, i confini del nostro territorio: confini geografici (il niente di molte ambientazioni delilliane è paradigmatico e ricorrente), ma in questo caso soprattutto morali. In ballo c’è la partita contro la morte, attraverso un passaggio volontario attraverso l’ibernazione in vista poi di un ritorno alla vita che ha molte sfumature di vera e propria risurrezione. Il racconto si muove intorno a questa possibilità talmente inimmaginabile da diventare, come nel caso della citazione, più indefinibile proprio nel momento in cui la si guarda più da vicino. Qui sta la maestria di Don DeLillo e qui sta anche il suo mestiere, che in qualche modo è sia qualità sia limite di questo romanzo, che resta di grande livello – e si merita una menzione tra i libri dell’anno – ma che è anche la dimostrazione di un modo di pensare la lingua e la struttura del racconto che lo scrittore ha molto probabilmente somatizzato e che ha già utilizzato in altre opere recenti e ciò, in certi passaggi che sembrano ‘troppo brillanti’, se è concessa questa espressione, fa sorgere il dubbio di stare assistendo a un romanzo nel quale lo scrittore DeLillo rimette in scena il lavoro dello scrittore DeLillo. Un circolo semantico che, comunque, gronda fascino da ogni pagina e che rende ‘Zero K’ un libro importante di uno scrittore più importante.

Lme

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