Politica

Dazi Ue-Trump: l’Europa tradita dopo una settimana di promesse vuote

Una settimana di silenzio che pesa come un macigno sui rapporti transatlantici. Dal primo decreto esecutivo di Donald Trump che ha fissato al 15% i dazi sulla maggior parte delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti, Bruxelles attende invano i successivi provvedimenti promessi per settori cruciali: automotive, farmaceutico, microprocessori. Un’attesa che inizia a trasformarsi in nervosismo diplomatico.

La Commissione europea ha completato la sua parte dell’accordo politico. “La palla è nel campo USA e ci attendiamo che ci aiutino a fare passi avanti”, ha dichiarato con tono misurato ma fermo Olof Gill, portavoce della Commissione, durante la consueta conferenza stampa di metà giornata a Bruxelles. Parole che celano una crescente impazienza.

Il paradosso del successo parziale

Tecnicamente, l’Europa può rivendicare una vittoria: dal 30% inizialmente minacciato da Trump si è scesi al 15%, una percentuale che, secondo fonti comunitarie, risulta persino più vantaggiosa dell’accordo siglato dalla Gran Bretagna. Londra ha ottenuto un dazio generale del 10%, ma questo si somma ai dazi base della “nazione più favorita”, portando il carico fiscale effettivo ben oltre quello europeo in numerosi settori.

Tuttavia, la soddisfazione per il negoziato si scontra con l’incertezza sull’implementazione. “Non abbiamo dubbi che altri ordini esecutivi arriveranno presto”, assicura Arianna Podestà, altra portavoce della Commissione, con una sicurezza che suona quasi come un mantra ripetuto per convincere se stessi oltre che l’opinione pubblica.

Le minacce velate di Bruxelles

Sotto la superficie diplomatica, emergono i primi segnali di tensione. Gill, pressato dalle domande dei giornalisti, ha ricordato che “le contromisure che sono state sospese possono essere riattivate in ogni momento, ove necessario”. Una clausola di salvaguardia che suona come un avvertimento neanche troppo velato all’amministrazione americana.

Il vero nodo della questione si annida nelle cifre astronomiche degli impegni energetici e degli investimenti: 750 miliardi di dollari in tre anni per le importazioni di energia americana, 600 miliardi per gli investimenti europei negli USA. Numeri che, ha dovuto ammettere la stessa Commissione, “non sono vincolanti”.

La sovranità delle multinazionali

Qui emerge il paradosso della diplomazia economica contemporanea. Trump ha già minacciato di rivedere i dazi se l’Europa non onorerà questi impegni. Ma Bruxelles non può garantire quello che promette, perché “le compagnie europee hanno il diritto sovrano di investire dove lo ritengono più vantaggioso”, come ha dovuto riconoscere lo stesso Gill.

La Commissione si è limitata a raccogliere “un aggregato sulle intenzioni” delle imprese europee, consultando aziende e Stati membri sui loro piani. Un esercizio di diplomazia economica che rivela tutta la fragilità degli accordi politici quando scontrano con le logiche di mercato.

Il gioco delle attese

Mentre i giorni passano senza nuovi decreti esecutivi americani, cresce l’impressione che l’accordo UE-USA sia più una tregua tattica che una soluzione strutturale. Trump ha ottenuto visibilità politica e promesse di investimenti; l’Europa ha evitato il peggio ma si ritrova ostaggio dei tempi e degli umori della Casa Bianca.

La partita commerciale transatlantica si gioca ormai su un terreno dove la politica detta le regole ma le multinazionali tengono le carte. E in questo gioco di equilibri instabili, l’attesa diventa essa stessa una strategia. Resta da vedere chi avrà la pazienza più lunga e i nervi più saldi.
Pubblicato da
Giuseppe Novelli