Difesa Bossetti: a gennaio 2011 corpo della ragazza non era nel campo

Difesa Bossetti: a gennaio 2011 corpo della ragazza non era nel campo
Yara Gambirasio e Giuseppe Bossetti
29 giugno 2017

Una fotografia satellitare scattata sul campo di Chignolo d’Isola il 24 gennaio 2011, un mese e due prima la scoperta del cadavere di Yara Gambirasio. Eccolo l’asso nella manica che i difensori di Massimo Giuseppe Bossetti si apprestano a calare nel processo d’appello che prenderà il via domani mattina a Brescia. Un elemento nuovo, contenuto nei motivi aggiuntivi d’appello depositati nelle scorse settimane dal pool di avvocati che difende il carpentiere di Mapello. L’analisi di quell’immagine, spiega l’avvocato Claudio Salvagni, dimostra che “a fine gennaio il cadavere di Yara non era nel campo”. Dimostrare che il corpo della vittima non è rimasto per tre mesi a Chignolo d’Isola, così come sostenuto dall’accusa, ma che vi è stato portato in un momento successivo al 24 gennaio è un elemento che, nella speranza della difesa, potrebbe rivelarsi decisivo per scagionare il carpentiere di Mapello. “C’è in ballo la sua vita”, sottolinea l’avvocato Salvagni che nei giorni scorsi è andato a far visita a Bossetti in carcere e lo ha trovato “concentrato e teso”, ma anche “fiducioso che possa ottenere giustizia”.

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Il fulcro del processo resta però il dna. Una prova definita “granitica” dalla Corte d’Assise di Bergamo che un anno fa, il 1 luglio 2016, condannò all’ergastolo il 47enne, sposato con Marita Comi e padre di tre figli. Secondo i giudici del processo di primo grado, fu lui a rapire la tredicenne Yara fuori dalla Polisportiva di Brembate Sopra, a seviziarla “con crudeltà” con un coltello ed abbandoarla ormai incosciente nel campo di Chignolo d’Isola lasciandola morire tra le ferite e il freddo di quella gelida sera del 26 novembre 2010. A incastrarlo, sempre secondo quanto decretato dalla sentenza di primo grado, è il suo dna che corrisponde a quello dell’assassino, prelevato dagli slip e dai leggins della tredicenne e ribattezzato dagli investigatori “Ignoto 1”. L’uomo che si presenta al giudizio della Corte d’Appello di Brescia (domani Bossetti sarà come sempre presente in aula) si proclama innocente fin dal momento del suo arresto, scattato nel giugno 2014 in seguito a oltre tre anni di indagini, basate soprattutto sull’analisi di decine di migliaia di profili genetici. Gli inquirenti coordinati dal pm Letizia Ruggeri risalirono a lui dopo aver individuato il padre biologico dell’assassino in Giuseppe Guerinoni, autista di pullman di Gorno, paese dell’Alta Val Seriana, morto nel 1999, e accertato che nessuno dei suoi figli naturali aveva un dna corrispondente a “Ignoto 1”. Si aprì così una nuova fase di indagini e si scoprì che Ester Zaruffi, madre di Bossetti, a fine anni Sessanta, prima di trasferirsi con la famiglia nella Bassa Bergamasca, aveva vissuto a Ponte Selva, in Val Seriana, e che proprio in quegli anni Guerinoni era stato suo vicino di casa.

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E probabilmente amante. La svolta arrivò dalla genetica. Fu infatti l’esame del dna a sancire che Bossetti è figlio illegittimo di Guerinoni. E, secondo l’accusa, assassino di Yara. Tutto ruota attorno al dna, dunque. Prova da sempre contestata dalla difesa soprattutto perché sui vestiti della vittima, accanto alle tracce di dna nucleare attribuite a Bossetti, ce ne solo altre di dna mitocondriale rimaste senza identità. Quanto basta, secondo Salvagni e il suo collega Paolo Camporini, per sollevare dubbi sull’attendibilità degli esami genetici compiuti dalla Procura e dunque sulla colpevolezza del carpentiere di Mapello. Dubbi messi nero su bianco nei motivi d’appello presentati dalla difesa che chiederà ai giudici della Corte d’Appello di Brescia una nuova perizia sul dna. “Abbiamo interpellato il numero uno della genetica forense mondiale, il norvegese Peter Gill”, annuncia Salvagni. Una perizia necessaria, sempre secondo la difesa, anche per far luce sugli altri “elementi di natura indiziaria” che portarono alla condanna del carpentiere di Mapello. La presenza del suo furgone nella zona della palestra frequentata da Yara in un’orario compatibile con quello della scomparsa della ragazzina, il suo cellulare che agganciò la cella di Brembate Sopra un’ora prima del rapimento della tredicenne (venne poi spento pochi minuti prima del rapimento per poi essere riacceso soltanto la mattina successiva), le tracce di polvere di calce provenienti da uno dei cantieri edili della zona e ritrovate sul corpo della vittima.

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