Don Giovanni anela alla morte e soffre per le donne. Amato “legge” Mozart per il Teatro Massimo di Palermo

Metti un apparato scenico girevole, metti un po’ di mimi in scena, metti un cast equilibrato – non perfettamente adatto all’opera ma con un protagonista di calibro – metti una direzione abbastanza in linea ma senza i voli pindarici e soprattutto espressivi che la partitura necessiterebbe, e il gioco è fatto: hai messo in scena un’opera. Formula questa ormai standardizzata in molti teatri d’Europa, nostrani e oltreoceano, anche se con le dovute differenze di budget e creatività, in era di spending review. Formula cui da tempo anche il Massimo di Palermo si è adeguato con il riciclo di quanto si trova in magazzino ed attrezzeria con più, o meno, fortunati risultati. Tanto varrebbe a questo punto tagliare sulle spese di registi e scenografi e tornare alle vecchie impolverate tele, per puntare, magari, su una qualità musicale e canora maggiore. Il Don Giovanni allestito per festeggiare il compleanno della apertura del Teatro cittadino nel lontano 16 maggio 1897 e andato in scena proprio il 16 scorso, risponde appieno alla formula di cui sopra. Giocando tra innovazione e tradizione e sulla universalità del personaggio Don Giovanni, eliminando i filosofeggiamenti Kierkegardiani, il regista Lorenzo Amato ha voluto dare una sua visione del mito don giovannesco disegnando un personaggio quasi pauroso del suo potere seduttivo, o comunque costretto nel suo ruolo dalla fame delle donne che gli si buttano addosso, nonché per soddisfare il loro desiderio.

Ecco quindi che la larva Don Giovanni, nuda come un verme, appunto, ma mascherata, prende vita quasi involontariamente, contorcendosi nel dolore della nascita, mentre altre larve, donne in succinti abiti notturni (pigiamini, camicie, culotte, canottierine e negligè vari) lo “sognano” e gli girano attorno. A salvarlo da quest’incubo, per gettarlo in un altro – quello della fama letteraria – Leporello che lo aiuta a vestirsi, ad acquistare la dignità di personaggio, mentre attacca a raccontare la sua storia – dal famoso catalogo.
Tutto ciò sulle note dell’Ouverture. Idea niente male, si potrebbe dire, se fosse stata suffragata degnamente da un lavoro e un’attenzione sugli interpreti e sulla scena ben maggiore di quella prestata. L’apparato scenico girevole di cui sopra (Angelo Canu) – raffigurante una via con palazzi, porte e finestre da un lato, e una loggiata dall’altro che di volta in volta si trasformava in giardino o camposanto o salone – dopo le prime due giravolte ha cominciato a divenire monotona, più che se fosse restata fissa. I costumi (Marja Hoffmann) – che dovevano raffigurare diverse epoche – sembravano più un’accozzaglia di stili senza una vera linea che li accomunasse:dalla foggia settecentesca degli abiti di Leporello e Don Giovanni, ai sessantottini pantaloni alla pescatora e foulard con camicettina svolazzante su pancione da quinto/sesto mese di Donna Elvira, ai tajeurini semi Chanel di Donna Anna, per finire ai pantaloni fantasia scozzese e giacca di velluto rossa (anche al funerale del Commendatore) di Don Ottavio, agli abiti per il ricevimento di Nozze di Masetto e Zerlina, probabili surrogati di non si sa bene quale negozio per abiti da cerimonie di Palermo.

Ma veniamo al cast. Su tutti il Don Giovanni di Carlos Alvarez, ormai un must per l’allestimento del titolo mozartiano, il Leporello di Marco Vico e il Commendatore di Michail Ryssov, espressivi e vocalmente in parte. Fuori il resto del cast, ad eccezione forse del tenore Tomislav Muzek anche se palesemente monotono dal punto di vista espressivo. I ruoli femminili sono mancati. La donna Anna di Roio Ignazio mancava di spessore vocale e interpretativo. Più adatta alla malizia di una Zerlina ed alla sua leggerezza vocale più che alla drammatica Anna. Stesso dicasi per la Donna Elvira di Maija Kovalevska, troppo leggera per esprimere la varia gamma del ruolo. Mentre la Zerlina di Barbara Bagnesi, mancava proprio di quella vivacità, malizia e leggerezza che invece vorrebbe il ruolo. Massiccio, in tutti i sensi il Masetto di Biagio Pizzuti. E la lettura poco dinamica di Stefano Ranzani poco aiuta gli interpreti ad una maggiore introspezione dei ruoli.
La mancanza dell’ottetto finale, realizzato da Mozart e Da Ponte per l’edizione di Vienna, avrebbe infine voluto un finale più d’effetto per la morte di Don Giovanni, considerato anche che il regista lo definiva come agognante ad essa. Ma il semplice fumo, le luci di taglio su sfondo scuro, e i cadaveri larve, anime dannate?, di donne accatastate ai piedi Don Giovanni, che stende il braccio al cielo, non bastano evadendo così il senso della musica e del dramma mozartiano.

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