Politica

Duterte si “separa” dagli Usa e passa sotto ala protettrice della Cina. Ma pagherà dazio

Rodrigo Duterte esce dall’isolamento e si allinea alla Cina, annunciando il divorzio con gli Stati uniti. Il controverso presidente filippino, nella sua lunga visita nella Repubblica popolare, di fatto ha dato vita a uno scambio col suo omologo cinese Xi Jinping: sostegno alla sanguinosa lotta al narcotraffico in cambio della rinuncia di Manila a un approccio rigido sul fronte della contesa territoriale in Mar cinese meridionale, basato su una sentenza arbitrale mai riconosciuta da Pechino. Il clima tra Duterte (foto dx) e Xi (foto) è apparso idilliaco e questo è suonato particolarmente sinistro per gli Stati uniti. Questi hanno affermato, dopo ulteriori violente dichiarazioni del sulfureo leader di Manila nei confronti del presidente Barack Obama e l’annuncio della “separazione” delle Filippine dall’America, che chiederanno “spiegazioni” alle Filippine. L’imbarazzo di Washington è palpabile, visto che il voltafaccia di Duterte taglia una storica alleanza che unisce i due paesi. Gli Stati uniti sono stati la metropoli coloniale delle Filippine dal 1898, quando strapparono l’arcipelago alla Spagna con una breve ma sanguinosa guerra. Negli anni bui dell’occupazione giapponese, durante la guerra del Pacifico, il rapporto tra America e Filippine si rinsaldò ulteriormente: furono oltre 200mila i filippini che combatterono sotto le insegne americane. Nel 1946 l’arcipelago divenne indipendente dagli Usa e nel 1947 gli Stati uniti ottennero di poter mantenervi due grandi basi militari, considerate strategiche per la presenza americana nel cruciale teatro dell’Asia-Pacifico.

La fine della guerra fredda cambiò le carte in tavola. Washington e Manila trattarono nuovi accordi di alleanza strategica e le basi militari vennero smantellate e sostituite da una presenza più leggera, poi rafforzata solo due anni fa grazie a un accordo firmato da Obama con l’allora presidente Benigno Aquino. Il mese scorso, però, Duterte ha chiarito che i corpi speciali americani di stanza nell’isola di Mindanao dov’è presente una forte insorgenza islamica, “se ne devono andare”. Motivo del contendere, la sanguinosa campagna di Duterte contro il narcotraffico. Le organizzazioni umanitarie, gli Stati uniti, l’Onu, l’Unione europea hanno condannato questa stretta dell’uomo forte di Manila che, dal suo arrivo al potere a fine giugno, ha provocato migliaia di morti, spesso in esecuzioni extragiudiziali. Dalla caduta del dittatore Ferdinando Marcos, nel 1986, le Filippine non avevano una guida così autoritaria e poco presentabile a livello internazionale. Ne hanno pagato le conseguenze anche gli affari: il quadro politico e geopolitico incerto hanno spinto molti investitori americani a scappare a gambe levate e il peso filippino è crollato. Duterte non poteva restar fermo e, in una regione come l’Asia, se non ti appoggi all’America devi appoggiarti alla Cina. E’ così volato in Cina per una lunga visita, con il chiaro obiettivo di mettersi sotto l’ala protettiva cinese. Ma questa protezione non è gratis. E il prezzo appare chiaro leggendo la dichiarazione congiunta dei due paesi, diffusa oggi da Pechino. Si tratta della contesa territoriale sul Mar cinese meridionale. Le Filippine sono uno dei diversi paesi che hanno contrastato la rivendicazione cinese di qualcosa come l’80 per cento di quel mare, dove Pechino ha fatto anche costruire delle isole artificiali per consolidare le proprie pretese.

Il predecessore di Duterte, Benigno Aquino, aveva fatto il passo di ricorrere a un tribunale arbitrale internazionale per chiarire la questione e, subito dopo l’elezione di Duterte, questa istituzione ha dato ragione a Manila. Pechino, dal canto suo, non ha riconosciuto la sentenza favorevole alle Filippine. La tattica cinese ora potrebbe dimostrarsi vincente: nel comunicato congiunto di oggi è precisato che “le due parti s’impegnano a rafforzare la cooperazione tra le loro rispettive Guardie costiere, a gestire assieme gli incidenti e le emergenze marittime, oltre che le preoccupazioni umanitarie e ambientali nel Mar cinese meridionale, come anche la sicurezza e la proprietà nel mare e la preservazione dell’ambiente marittimo, in accordo con i principi universalmente riconosciuti della legge internazionale, compresa la Convenzione Onu sul diritto del mare (Unclos) del 1982”. Questa formulazione è stata accompagnata da un “Memorandum d’intesa tra la Guardia costiera cinese e la Guardia costiera filippina sulla creazione di un Comitato congiunto della Guardia costiera sulla cooperazione marittima”. Di fatto la sentenza arbitrale diventa carta straccia.

Dal suo punto di vista, Duterte ottiene da Pechino un sostanziale via libera nella campagna contro la droga, che è al cuore del suo rapporto di fiducia con i filippini che, a dispetto del sangue versato (anche di innocenti, secondo le Ong umanitarie), apprezzano in maniera massiccia il loro folkloristico leader. “La Cina – si legge nel comunicato congiunto – comprende a sostiene gli sforzi del governo filippino nella lotta contro le droghe illecite. Realizzando che il problema delel droghe illecite pone una seria minaccia alla salute, alla sicurezza e al benessere dei popoli di entrambi i paesi, le parti concordano nel rafforzare gli scambi d’intelligence, il ‘know-how’, la condivisione di tecnologia nella lotta contro i reati legati alla droga, l’educazione alla prevenzione e le strutture riabilitative”. E’ tuttavia possibile tagliare così facilmente un cordone ombelicale che unisce Filippine e Stati uniti non solo sul fronte della difesa e della sicurezza, ma anche su quello economico? Washington, da questo punto di vista, sembra orientata ad aspettare e non chiudere la porta. John Kirby, il portavoce del Dipartimento di Stato, ieri ha detto che le dichiarazioni di Duterte sono “in maniera inspiegabile contrarie alla relazione strettissima che abbiamo col popolo filippino, come col il governo, a tutti i livelli, e non solo dal punto di vista della sicurezza”. In questo senso, gli Usa vogliono spiegazioni. E finora la comunicazione non è stata univoca. “Manterremo le nostre relazioni con l’Occidente”, hanno scritto in un comunicato congiunto i ministri delle Finanze e della Pianificazione economica di Manila. “Solo – hanno continuato – vogliamo un’integrazione più forte coi nostri vicini”.

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