Emergenza sbarchi: tante chiacchiere, pochi fatti

6 luglio 2017

Al di là delle dichiarazioni che fanno i titoli dei giornali e servono più per ragioni di politica interna nei diversi Stati membri, Italia compresa, non è molto quello che ci si può aspettare dalla riunione informale dei ministri degli Affari interni dell’Ue, oggi a Tallinn (Estonia), in termini di risposta alla crisi migratoria e all’emergenza sbarchi in Italia. Ma qualche passo avanti, ancorché timido, ci sarà: intanto dovrebbe essere avallato politicamente, con l’accordo dei ministri dei Ventotto, il “Piano d’azione” che la Commissione europea ha presentato martedì a Strasburgo. E poi c’è la constatazione che sulla crisi migratoria gli Stati membri, divisi e incapaci di solidarietà vera nei confronti dell’Italia con una condivisione degli oneri “all’interno” dell’Ue, sono almeno uniti e sempre più convinti sulla strategia esterna per affrontare il fenomeno e ridurre i flussi: con iniziative come il training e il rafforzamento della guardia costiera libica, gli accordi di cooperazione e di riammissione con i paesi di origine e di transito, gli incentivi a Tunisia e Libia per convincerli a creare delle proprie zone di ricerca e soccorso in mare. Buona parte del Piano d’azione della Commissione va nel senso voluto dal governo italiano: nel riconoscimento all’Italia di stare sobbarcandosi oneri molto maggiori degli altri Stati membri; nella legittimazione europea dell’iniziativa italiana per il codice di condotta per le Ong; e poi nel fatto che si accetti per la prima volta di rimettere in discussione, nel mandato delle operazioni navali dell’Ue (Triton e Sophia), il principio secondo cui l’unico paese di destinazione dei migranti soccorsi in mare debba essere l’Italia.

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Su quest’ultimo punto, sebbene realisticamente non vi siano prospettive di riuscire a cambiare qualcosa, visto che il mandato delle operazioni navali può essere cambiato solo all’unanimità degli Stati membri, il governo intende comunque porre la questione, almento per ragioni “tattiche”. E il ministro dell’Interno Marco Minniti ha già chiesto di parlarne con i vertici dell’Agenzia Frontex per le frontiere esterne dell’Ue. Minniti e il direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, avranno comunque occasione di incontrarsi a Tallin, durante il Consiglio informale. L’idea italiana di “regionalizzare” le attività di ricerca e soccorso in mare dei migranti – prevedendo che i naufraghi possano essere sbarcati nei porti degli Stati membri di provenienza delle navi militari che partecipano alle missioni, e non solo e sempre in Italia – non sembra destinata a un grande successo, vista l’opposizione di principio dei paesi interessati (soprattutto Francia e Spagna). Ma farli uscire allo scoperto, mostrando che non intendono fare neanche una frazione di quanto sta facendo l’Italia, esporrà le contraddizioni di quei governi e delle loro dichiarazioni di solidarietà europea, e metterà l’Italia (e la Commissione, sua alleata) in posizione di maggiore forza. Sarà più facile, a questo punto, chiedere che gli altri Stati membri almeno contribuiscano in modo più concreto e generoso al finanziamento delle azioni esterne. In particolare, nel Trust Fund per l’Africa i contributi nazionali finora sono rimasti fermi a pochi milioni di euro – per giunta forniti solo da Italia, Germania e Olanda – di fronte ai 2,6 miliardi stanziati dalla Commissione (che inizialmente doveva mettere solo la metà del totale, previsto a 3,6 miliardi).

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Per quel che risulta al governo italiano, i salvataggi in mare oggi sono effettuati per circa il 60% dalle imbarcazioni delle Ong, per il 10% dalle navi dell’operazione Sophia (che ha per obiettivo la lotta al traffico e non la ricerca e soccorso) e per il restante 40% dalle missioni di Frontex, e in particolare da Triton. Nei dati ufficiali spesso il ruolo delle Ong è sottostimato perché non vengono contati nella percentuale di migranti soccorsi dalla loro navi tutti i naufraghi che sono trasferiti, dopo il salvataggio, sui mezzi militari delle missioni Frontex, e da questi poi sbarcati in Italia. Il codice di condotta per le Ong a cui sta lavorando il governo – e che non sarà pronto per la riunione di Tallin, ma potrà essere illustrato a grandi linee ai ministri dell’Ue – prevede una serie di condizioni che le navi impegnate nella ricerca e soccorso in mare dovranno rispettare per poter attraccare nei porti italiani. Per quello che se ne sa finora, una parte di queste condizioni mirano a minimizzare il “fattore di attrazione” (“pull factor”) dei flussi migratori che le navi delle Ong oggettivamente possono rappresentare, e l’aiuto ai trafficanti che a volte involontariamente forniscono, stazionando al limite delle acque territoriali libiche in attesa dei barconi dei disperati che non sono in grado di tenere il mare. Sarà vietato alle Ong fare segnali luminosi verso la costa, telefonare ai migranti in partenza per prendere accordi, spegnere il transponder che segnala la posizione in mare visibile ai mezzi di Frontex; e sarà obbligatorio prendere a bordo gli ufficiali di polizia giudiziaria che conducono inchieste sui trafficanti. “Stiamo chiedendo che ci sia una redistribuzione del carico che per l’Italia sta diventando molto pesante”, ha spiegato, di passaggio oggi a Bruxelles, il ministro delle Infrastrutture Graziano Del Rio, aggiungendo che bisogna pensare “anche ad approdi diversi da quelli italiani” per sbarcare i migranti soccorsi in mare, e che “il codice per le Ong serve anche a questo”: perché “il problema non è chiudere i porti, ma distribuire meglio i migranti”. “Noi continuiamo a fare la nostra parte come abbiamo sempre fatto: ma è importante – ha concluso Del Rio – che anche gli altri facciano altrettanto”.

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