I carri armati delle Forze di Difesa Israeliane (Idf) hanno sfondato le linee del quartiere di Sabra, penetrando nel cuore di Gaza City in un’escalation che ridisegna la geografia del conflitto. Mentre i cingolati avanzano tra le macerie della Striscia centrale, il bilancio umano si tinge di rosso: oltre 50 morti dall’alba, otto bambini tra le vittime di raid mirati contro le tende degli sfollati. Ma la vera battaglia si combatte ora nelle strade di Israele, dove la rabbia popolare esplode contro il governo Netanyahu e il suo ministro dell’ultradestra Ben Gvir viene aggredito verbalmente da manifestanti inferociti.
La crisi degli ostaggi diventa terreno di scontro diplomatico quando Donald Trump, con la sua proverbiale schiettezza, mette in dubbio i numeri ufficiali israeliani. “Ora hanno 20 ostaggi vivi, ma probabilmente i 20 non sono effettivamente 20”, dichiara il presidente americano dallo Studio Ovale, scatenando una tempesta politica che investe direttamente l’esecutivo di Tel Aviv.
La risposta delle famiglie è immediata e tagliente: “Signor Presidente, ci sono 50 ostaggi. Per noi, ognuno rappresenta un mondo intero”. Le parole colpiscono nel segno, evidenziando la frattura tra la percezione internazionale e la realtà drammatica vissuta dalle famiglie israeliane.
Il coordinatore per gli ostaggi Gal Hirsh tenta di contenere i danni con un messaggio rassicurante, ma il danno è fatto. I sondaggi parlano chiaro: il 62% degli israeliani ha perso fiducia nel governo, secondo una rilevazione del quotidiano centrista Maariv.
In questo scenario di crescente instabilità, Benny Gantz lancia la sua mossa politica più audace: un “governo per la liberazione degli ostaggi” con mandato di sei mesi. L’ex generale e leader dell’Unità Nazionale propone un’alleanza trasversale che includa Yair Lapid e Avigdor Liberman, con un obiettivo chiaro e temporalmente definito. “Non voglio salvare Netanyahu, ma gli ostaggi”, dichiara Gantz con la franchezza di chi ha già servito nel gabinetto di guerra.
La proposta, tuttavia, si scontra immediatamente con il muro dell’ultradestra: Ben Gvir la boccia senza appello, ribadendo il mantra della “vittoria assoluta” contro Hamas.
La tensione esplode nelle strade quando manifestanti accerchiano lo stesso Ben Gvir a Kfar Malal, nel centro del paese. “Vergogna”, gridano mostrandogli le foto degli ostaggi, mentre qualcuno si rivolge direttamente al figlio del ministro: “Se tu fossi rapito, tuo padre ti lascerebbe morire”.
Mentre la politica israeliana si lacera, Gaza continua a morire. L’offensiva militare non conosce sosta: sei bambini uccisi dalle artiglierie nell’area di Asdaa, altri due morti a Jabalia An-Nazla, mentre la fame miete vittime silenziose. Due bambini e sei adulti sono morti per malnutrizione nelle ultime 24 ore, portando a 289 il bilancio complessivo dei decessi per fame, di cui 115 minori.
Philippe Lazzarini, capo dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, non usa mezzi termini: “È ora che il governo israeliano smetta di negare la carestia che ha creato a Gaza. Ogni ora conta”. Le sue parole risuonano come un atto d’accusa internazionale mentre 300mila bambini patiscono la malnutrizione nella Striscia assediata.
Il ministro estremista Smotrich rincaricorda la dose: “Assediare Gaza City. Chi non evacua può morire di fame o arrendersi”. Parole che cristallizzano l’approccio di un’ala del governo israeliano sempre più isolata anche internamente.
In questo quadro esplosivo, Hamas rilancia con un appello che sa di provocazione strategica: un “pellegrinaggio di massa” alla moschea di al-Aqsa per contrastare “le provocazioni dei coloni e dell’ultradestra israeliana”. L’organizzazione palestinese chiede di “intensificare gli sforzi per contrastare l’espansione degli insediamenti”, aprendo un potenziale nuovo fronte nella Città Santa.
La mossa di Hamas arriva nel momento di massima debolezza politica di Netanyahu, quando migliaia di israeliani tornano in piazza a Tel Aviv per chiedere un cambio di rotta. È una strategia calcolata che punta a moltiplicare le pressioni sul governo israeliano su più fronti contemporaneamente.
Il conflitto di Gaza si trasforma così in una crisi sistemica che investe la stabilità interna di Israele. Mentre i tank avanzano tra le macerie di Sabra, la vera battaglia si combatte nelle piazze di Tel Aviv e nei corridoi della Knesset. La guerra esterna genera una guerra interna che potrebbe ridefinire gli equilibri politici israeliani.
Il tempo stringe per tutti: per gli ostaggi nelle mani di Hamas, per i civili palestinesi sotto i bombardamenti, per un governo sempre più isolato dalla sua popolazione. In questo scenario, ogni decisione pesa come un macigno sul futuro di una regione che sembra aver smarrito la strada verso la pace.