Gaza, raid israeliano sull’ospedale Nasser: oltre 20 morti, cinque sono giornalisti. I fronti si moltiplicano

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Il bilancio complessivo dell’attacco parla di almeno 20 morti, secondo le fonti ospedaliere locali. La Foreign Press Association non ha tardato a reagire con una durezza inusuale, chiedendo “una spiegazione immediata” alle Forze di Difesa Israeliane e all’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu.

“Chiediamo a Israele di porre fine una volta per tutte alla sua abominevole pratica di prendere di mira i giornalisti”, ha tuonato l’organizzazione in una nota che suona come un atto d’accusa formale.

La diplomazia si mobilita mentre i fronti si moltiplicano

Il sangue versato a Khan Yunis arriva in un momento di febbrile attivismo diplomatico. A Gedda, i ministri degli Esteri dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica si sono riuniti in sessione straordinaria, con l’obiettivo dichiarato di coordinare “posizioni comuni contro i piani di occupazione totale della Striscia”. L’OIC non usa mezzi termini, denunciando “crimini di genocidio, fame, sfollamento e blocco” in un linguaggio che testimonia l’escalation retorica del conflitto.

Ma mentre la diplomazia cerca faticosamente una sintesi, il terreno brucia sotto nuovi fuochi. L’IDF ha confermato l’avvio di un’operazione di terra nella Siria meridionale, aprendo quello che potrebbe essere un terzo fronte attivo dopo Gaza e Libano. La geografia del conflitto si espande, trascinando con sé il rischio di una conflagrazione regionale che molti temevano ma nessuno è riuscito a scongiurare.

Netanyahu gioca la carta del ritiro condizionato

Sul fronte libanese, Benjamin Netanyahu ha lanciato quello che appare come un primo segnale di apertura, dichiarando la disponibilità israeliana a “ridurre la presenza militare nel sud del Libano” attraverso il ritiro da cinque postazioni strategiche. La contropartita è chiara e non negoziabile: le Forze Armate Libanesi dovranno adottare “misure concrete per il disarmo di Hezbollah”.

“La decisione del governo libanese di lavorare al disarmo entro il 2025 rappresenta un passo di grande portata” ha affermato l’Ufficio del Primo Ministro israeliano, in quella che suona come una vittoria diplomatica anticipata. Resta da vedere se Beirut avrà la forza politica e militare per onorare un impegno che tocca il cuore del potere di Hezbollah nel Paese dei cedri.

L’Italia invoca la libertà di stampa

Dal Vaticano, dove aveva appena incontrato Papa Francesco, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha fatto sentire la voce dell’Italia sulla tragedia dei giornalisti. “I giornalisti devono poter fare il loro lavoro a Gaza”, ha dichiarato con fermezza, sottolineando la necessità di preservare “la libertà di stampa anche nella Striscia di Gaza”. Parole che suonano come un richiamo all’ordine in un contesto dove il diritto di cronaca sembra essere diventato un lusso mortale.

Gli aiuti umanitari tra propaganda e necessità

In questo scenario di escalation militare e tensione diplomatica, continua il balletto degli aiuti umanitari. Aerei provenienti da Giordania, Emirati Arabi Uniti, Germania e Indonesia hanno paracadutato 116 pallet di viveri nella Striscia, in un’operazione che l’IDF presenta come gesto umanitario ma che gli osservatori leggono anche in chiave di soft power.

Particolarmente significativa la partecipazione dell’Indonesia, il Paese con la più grande popolazione musulmana al mondo che non intrattiene relazioni diplomatiche con Israele. Ogni pallet trasporta “diverse centinaia di chilogrammi di cibo”, secondo le fonti militari israeliane, ma gli esperti avvertono: i lanci aerei possono soddisfare solo una frazione minima del fabbisogno reale e comportano rischi concreti per i civili che possono essere colpiti dai pacchi in caduta.

La ripresa di questa politica, avviata il 26 luglio scorso, arriva in risposta alle “crescenti critiche internazionali sulla crisi alimentare a Gaza”, come ammesso implicitamente dalle stesse autorità israeliane. Un riconoscimento che suona come una confessione: l’assedio alimentare è diventato un’arma di guerra impossibile da nascondere.

Il sangue dei cinque giornalisti uccisi a Khan Yunis pone interrogativi che vanno oltre la cronaca di guerra. In un conflitto dove l’informazione è diventata essa stessa campo di battaglia, ogni morte di chi racconta rappresenta una sconfitta per la democrazia. La richiesta di spiegazioni della Foreign Press Association non è solo un atto dovuto: è la cartina di tornasole di una guerra che rischia di divorare anche i suoi testimoni.