L’alba di una nuova fase del conflitto si profila all’orizzonte di Gaza City. Centinaia di carri armati israeliani, veicoli blindati e bulldozer si ammassano lungo il confine settentrionale della Striscia, in quello che rappresenta il più imponente dispiegamento militare dall’inizio delle operazioni.
Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno completato i preparativi per l’operazione “Carri di Gedeone II”, un’offensiva terrestre che promette di ridefinire gli equilibri del conflitto.
Secondo quanto riportato da Ynet, unità di fanteria regolare guideranno l’incursione, supportate dalle brigate già operative sui fianchi della città. La strategia militare prevede un accerchiamento graduale: le brigate di combattimento stringeranno un anello sempre più stretto attorno a Gaza City, in una manovra che ricorda le tattiche di assedio urbano più moderne. Tuttavia, i vertici militari israeliani hanno già avvertito la leadership politica: non aspettatevi una vittoria lampo.
I comandanti sul campo stimano almeno tre o quattro mesi di combattimenti intensi. Una prospettiva che fotografa la complessità di un teatro operativo dove ogni metro quadrato può trasformarsi in una trappola mortale. L’esercito israeliano non nutre illusioni: Hamas non si arrenderà facilmente, nemmeno se Israele dovesse conquistare le zone nevralgiche di Gaza City.
Nel frattempo, Hamas ha messo in atto una tattica tanto cinica quanto efficace: il trasferimento degli ostaggi dai tunnel sotterranei alle abitazioni e tende in superficie. Una mossa strategica che trasforma ogni quartiere residenziale in un potenziale campo minato diplomatico e militare. L’obiettivo è chiaro: impedire alle IDF di operare liberamente in determinate aree, sfruttando la presenza dei prigionieri come deterrente.
La testimonianza più drammatica arriva dalla famiglia di Guy Gilboa-Dalal. Secondo fonti palestinesi contattate dall’emittente pubblica israeliana Kan, la madre dell’ostaggio è stata informata che suo figlio si trova ora prigioniero in superficie a Gaza City. Un cambiamento di location che assume contorni sinistri dopo la diffusione, la scorsa settimana, di un video che mostrava il giovane sul sedile posteriore di un’auto.
Questa tattica rivela la disperazione di Hamas, ma anche la sua lucida consapevolezza delle dinamiche mediatiche e politiche internazionali. Ogni operazione militare israeliana rischia ora di trasformarsi in un potenziale massacro di civili innocenti, con le inevitabili ripercussioni sull’opinione pubblica mondiale.
Mentre Gaza si prepara all’assedio, a Washington si ridisegnano le alleanze strategiche del Medio Oriente. Il presidente Donald Trump ha lanciato un messaggio inequivocabile a Benjamin Netanyahu, definendo il Qatar “un grande alleato” degli Stati Uniti. Parole che assumono un significato particolare, pronunciate a soli due giorni dalla cena con il premier qatarino Mohammed bin Abdulrahman Al Thani.
“Molta gente non capisce cosa sia il Qatar, ma è un grande alleato”, ha dichiarato Trump ai giornalisti. “Conducono una vita difficile perché sono proprio in mezzo a tutto, per cui devono essere politicamente corretti in un certo senso”. Una descrizione che fotografa perfettamente il ruolo di Doha: equilibrista diplomatico in una regione dove ogni passo falso può costare caro.
Il riconoscimento di Trump arriva dopo la crisi innescata dall’attacco israeliano contro la leadership di Hamas nella capitale qatarina. Un’operazione che aveva fatto tremare i rapporti tra Washington e Doha, storici alleati nella regione. Ora, il presidente americano chiede al Qatar di “fare qualcosa con Hamas”, facendo eco alle pressioni israeliane per interrompere ogni relazione con l’organizzazione paramilitare palestinese.
La risposta di Benjamin Netanyahu non si è fatta attendere. Durante una conferenza stampa con il segretario di Stato Marco Rubio, il premier israeliano ha rivendicato con orgoglio la “decisione del tutto indipendente” di colpire Hamas in Qatar. “Ci assumiamo la piena responsabilità”, ha dichiarato, respingendo al mittente ogni critica internazionale.
Netanyahu ha bollato come “enorme ipocrisia” le condanne per l’attacco a Doha, richiamando la risoluzione ONU approvata dopo l’11 settembre. “Nessun Paese può ospitare terroristi”, ha tuonato il premier israeliano. “Non si ha sovranità quando si fa da base ai terroristi”. Parole che suonano come una dichiarazione di principio, ma anche come un avvertimento a tutti i Paesi che mantengono relazioni con Hamas.
Marco Rubio, dal canto suo, ha preferito guardare avanti: “Siamo concentrati su ciò che accadrà in seguito”. Una frase che rivela la volontà americana di non rimanere impantanata nelle polemiche del passato, ma di costruire una nuova architettura di sicurezza regionale. L’operazione “Carri di Gedeone II” rappresenta forse l’ultimo tassello di questo mosaico strategico, dove ogni mossa può ridefinire gli equilibri di potere in Medio Oriente.