Il no è categorico, definitivo. L’Italia non invierà militari in Ucraina, nemmeno sotto l’ombrello di una missione internazionale di peacekeeping. La premier Giorgia Meloni ha tracciato una linea rossa invalicabile durante il vertice di questa mattina a Palazzo Chigi, con i vice premier Antonio Tajani e Matteo Salvini e il ministro della Difesa Guido Crosetto. Una riunione resa necessaria non solo per fare il punto sui possibili sviluppi negoziali dopo i colloqui alla Casa Bianca, ma soprattutto per mettere ordine in un governo che nelle ultime settimane ha mostrato più di una crepa sulla gestione della crisi ucraina.
Le parole di Salvini contro Emmanuel Macron, che hanno scatenato una tempesta diplomatica con Parigi, e la proposta di Tajani sull’invio di sminatori italiani – bocciata sia da Meloni che da Crosetto – avevano infatti creato un pericoloso corto circuito nell’esecutivo. Il richiamo all’ordine della presidente del Consiglio è arrivato puntuale: basta fughe in avanti, serve prudenza e coesione.
La linea del governo: sicurezza collettiva, non truppe
La posizione italiana si cristallizza attorno a un principio cardine: nessuna partecipazione a eventuali forze multinazionali da impegnare in territorio ucraino. Al vaglio restano soltanto “ipotesi di monitoraggio e formazione al di fuori dei confini ucraini”, e solo dopo il raggiungimento di un cessate il fuoco. Una distinzione sottile ma fondamentale, che marca la distanza dalle posizioni francesi e britanniche, favorevoli all’invio di contingenti di peacekeeping.
Un approccio che privilegia la deterrenza multilaterale rispetto all’intervento diretto, in linea con la tradizione atlantista italiana ma attenta a non oltrepassare la soglia della partecipazione attiva al conflitto.
Tramonta così definitivamente anche l’ipotesi degli sminatori, nonostante l’Italia vanti competenze riconosciute a livello internazionale in questo settore, già impiegate con successo nella missione Unifil in Libano. Tajani, in conferenza stampa, ha fatto marcia indietro: “Nessuno di noi ha mai parlato della presenza di truppe italiane operative in Ucraina”, assicurando che eventuali operazioni di sminamento sarebbero comunque “umanitarie” e “non all’ordine del giorno”.
L’ombra di Mosca e le nuove sanzioni
Il timing del vertice non è casuale. Nella notte, la Russia ha colpito Kiev con un attacco devastante che ha provocato 18 morti, tra cui quattro bambini, centrando anche uffici dell’Unione europea. Un’escalation che Meloni ha interpretato come la dimostrazione di “chi sta dalla parte della pace e chi non ha intenzione di credere nel percorso negoziale”. La risposta italiana sarà un sostegno alle nuove sanzioni contro Mosca, che i ministri degli Esteri discuteranno dal Consiglio informale in Danimarca.
“Sentiremo le proposte dell’Alto commissario Kallas e valuteremo, non siamo contrari”, ha precisato Tajani, sottolineando come “la Russia attacca la popolazione civile ed è inaccettabile”. Un inasprimento delle misure punitive che l’Italia è pronta a sostenere, pur mantenendo aperta la porta al dialogo diplomatico.
Le “opportunità di dialogo verso una pace giusta” di cui parla il comunicato di Palazzo Chigi restano infatti il faro della strategia italiana, anche se il percorso appare ancora in salita. La sfida sarà quella di bilanciare fermezza verso Mosca e apertura negoziale, evitando al contempo le divisioni interne che hanno caratterizzato le ultime settimane.
Salvini non arretra: “Ho il diritto di parlare di pace”
Se l’obiettivo era ricompattare il governo, il risultato appare solo parzialmente centrato. La linea del no alle truppe fa felice Matteo Salvini, che rivendica il successo della sua posizione: “Tutto il governo dice che non invieremo neanche un nostro ragazzo o una nostra ragazza a combattere e morire in Ucraina, non siamo in guerra contro la Russia”.
Ma sulla richiesta di evitare polemiche, il leader leghista sembra sordo. Alla replica di Tajani sulla titolarità della politica estera, Salvini risponde piccato: “Quando c’è di mezzo la pace e la guerra non c’è titolarità, ho il diritto e il dovere di parlare”. E su Macron insiste: “È un leader europeo probabilmente in difficoltà nel suo Paese”, rivendicando il suo “tàches al tram” come un semplice dialettismo, non un insulto.
Una tensione che si riflette anche nelle nomine diplomatiche. Proprio oggi, Stefano Beltrame, ex consigliere diplomatico di Salvini ai tempi del governo Conte, è stato nominato ambasciatore a Mosca. Una scelta che porta la firma leghista in un momento delicatissimo per i rapporti con la Russia, e che potrebbe essere interpretata come un segnale di continuità con l’approccio più dialogante del Carroccio.
Un equilibrio precario tra atlantismo e pacifismo
L’Italia si trova così a navigare in acque agitate, tra la fedeltà atlantica e le spinte pacifiste interne, tra la solidarietà all’Ucraina e il timore di un coinvolgimento diretto. La strategia di Meloni punta su un difficile equilibrio: sostenere Kiev senza provocare Mosca, mantenere la coesione governativa senza rinunciare al profilo internazionale.
Ma le crepe restano evidenti, e il prossimo banco di prova sarà la gestione delle nuove sanzioni e dei rapporti con i partner europei. Soprattutto con una Francia che guarda con sospetto alle posizioni italiane e un Regno Unito sempre più determinato a sostenere l’opzione militare. In questo scenario, l’Italia di Meloni dovrà dimostrare di saper essere ponte tra le diverse sensibilità occidentali, senza perdere credibilità e autorevolezza.