Il caso Shahin, quando la sicurezza si arena nelle aule di giustizia
La liberazione dell’imam Mohamed Shahin non è soltanto una notizia di cronaca giudiziaria. È un fatto politico, istituzionale e culturale che interroga lo Stato nel suo punto più sensibile: il confine, sempre più fragile, tra tutela delle libertà e difesa della sicurezza nazionale.
La Corte d’Appello di Torino ha fermato l’espulsione decisa dal Viminale, ritenendo insussistenti i presupposti di pericolosità. Il governo, per voce della premier Giorgia Meloni, ha reagito con durezza. Non è uno scontro personale, né una polemica di giornata. È il sintomo di una frattura profonda, che ciclicamente riaffiora e che oggi assume contorni ancora più netti, perché riguarda terrorismo, radicalizzazione e ordine pubblico.
Il punto non è stabilire se Shahin abbia commesso un reato. La magistratura ha già risposto: no. Il nodo vero è un altro, ed è più scomodo. Può uno Stato attendere che una minaccia si traduca in un fatto penalmente rilevante prima di intervenire? Oppure ha il diritto — e il dovere — di agire in via preventiva quando ritiene che determinati comportamenti, parole, relazioni rappresentino un rischio concreto, anche se non ancora sanzionabile sul piano penale?
Il decreto di espulsione firmato dal ministro Piantedosi si muoveva esattamente su questo terreno. Non un giudizio morale, non una censura ideologica, ma una valutazione di sicurezza. Le parole pronunciate dall’imam sul 7 ottobre, definite “resistenza” e non violenza, non sono state considerate un’opinione qualunque. In un’Europa segnata dal terrorismo jihadista e da un conflitto mediorientale che incendia le piazze, quelle frasi assumono un peso politico e simbolico che va ben oltre il palco di una manifestazione.
La Corte, però, ha scelto un’altra strada. Ha chiesto prove più solide, elementi più stringenti, una minaccia “attuale e grave” dimostrabile. È una linea coerente con lo Stato di diritto, ma che espone a una domanda inevitabile: chi si assume la responsabilità se la valutazione ex post arriverà troppo tardi? Non è un’accusa ai giudici, né una delegittimazione delle garanzie. È la constatazione di un cortocircuito istituzionale che si ripete. La sicurezza viene invocata dall’esecutivo, ridimensionata dalle toghe, e alla fine resta sospesa in una terra di nessuno. Nel frattempo, il messaggio che passa è ambiguo: parole che minimizzano una strage terroristica possono non avere conseguenze concrete.
C’è poi un altro rischio, più sottile. Trasformare ogni decisione giudiziaria in un pretesto per uno scontro frontale tra politica e magistratura indebolisce entrambi. Il governo appare impotente, i giudici finiscono nel mirino, e il Paese perde fiducia nella capacità dello Stato di agire in modo coerente.
Il caso Shahin non si risolve con uno slogan né con un post sui social. Richiede una riflessione seria sul perimetro degli strumenti a disposizione dello Stato per prevenire la radicalizzazione, senza scivolare nell’arbitrio ma senza nemmeno rinunciare alla difesa preventiva. Continuare a fingere che il problema non esista, o relegarlo a una disputa tra poteri, è la soluzione peggiore.
Perché la sicurezza non è un concetto astratto. È una responsabilità concreta. E quando resta intrappolata tra carte bollate e polemiche politiche, a pagare il prezzo non è un governo o una sentenza. È la credibilità stessa dello Stato.
