L’Europa accelera sulla Palestina mentre Israele grida al tradimento. Il Regno Unito si prepara al passo più significativo della sua politica mediorientale degli ultimi decenni: riconoscere unilateralmente lo Stato di Palestina entro settembre, in occasione dell’Assemblea Generale dell’ONU.
L’annuncio del premier britannico Keir Starmer non è una minaccia a vuoto, ma un ultimatum dalle conseguenze potenzialmente dirompenti. “Il riconoscimento avverrà”, ha dichiarato il leader laburista, “a meno che il governo israeliano non assuma misure sostanziali per porre fine alla terribile situazione a Gaza, raggiunga un cessate il fuoco, chiarisca che non ci sarà annessione in Cisgiordania e si impegni in un processo di pace a lungo termine”.
L’effetto domino europeo
Un aut-aut che arriva dopo mesi di crescente frustrazione occidentale per la gestione israeliana del conflitto e che trova immediatamente un alleato inaspettato: Malta. Il premier Robert Abela ha confermato che anche l’isola mediterannea compirà lo stesso passo a settembre, parlando di “impegno per una pace duratura in Medio Oriente”.
La mossa britannica non è isolata ma si inserisce in un movimento più ampio che sta attraversando l’Europa. Dopo il riconoscimento già formalizzato da Spagna, Irlanda e Norvegia, ora anche Francia, Canada, Australia, Finlandia e Portogallo stanno “considerando” il passo, secondo una dichiarazione congiunta emersa dalla Conferenza per la promozione della soluzione dei due Stati.
Il ministro degli Esteri britannico David Lammy ha rafforzato la posizione di Downing Street con parole che suonano come un monito: “La soluzione dei due Stati è in pericolo”. Pur ribadendo il “sostegno fermamente saldo” a Israele, Lammy ha denunciato una “ingiustizia storica” che continua a pesare sulla Palestina, precisando però che “Hamas non dovrà mai essere ricompensata per il mostruoso attacco del 7 ottobre”.
Per il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, prima di riconoscerlo “bisogna costruirlo lo Stato palestinese, bisogna costruire l’unità di quello Stato”, che deve comprendere sia “Gaza” che la “Cisgiordania”, perché “bisogna impedire, come dicono alcuni ministri del governo israeliano, che la Cisgiordania venga fagocitata. La Cisgiordania deve rimanere tale, quindi bisogna lavorare per costruire uno Stato palestinese e noi siamo pronti a fare tutto ciò che è necessario per la costruzione di quello Stato”. “Perché ci possa essere uno Stato – ha spiegato Tajani, esso deve esistere, non esiste uno Stato teorico”, esso dev’essere “caratterizzato da un popolo ma anche da un’unità territoriale che adesso non c’è. Noi dobbiamo lavorare per questo, non sono assolutamente contrario al riconoscimento dello Stato palestinese ma bisogna che ci sia lo Stato palestinese, certamente non vogliamo riconoscere Hamas come rappresentante dello Stato palestinese, questo è un tema non secondario perché Hamas è un’organizzazione terroristica”. Senza dubbio, ha proseguito il vicepremier, “finita la guerra, bisognerà lavorare per costruire uno Stato palestinese, bisogna realizzare il sogno del popolo palestinese, bisogna costruirlo sul serio uno Stato palestinese, non” fare “una finzione giuridica”, ma “costruirlo per dare al popolo palestinese uno Stato che sia vero, organizzato, unito”.
Lo scontro diplomatico
È proprio su questo punto che si consuma lo scontro diplomatico più aspro. Il ministero degli Esteri israeliano ha respinto con forza l’ultimatum britannico, definendolo una “ricompensa per Hamas” che “danneggia gli sforzi per raggiungere un cessate il fuoco”. Una posizione condivisa dal presidente americano Donald Trump, che ha etichettato l’iniziativa europea come un “premio ai terroristi”, pur dichiarando di “non avere opinioni” sulla decisione di Starmer.
Il governo britannico respinge categoricamente le accuse. “Questa non è una ricompensa per Hamas”, ha replicato la segretaria di Stato per i trasporti Heidi Alexander. “Hamas è una vile organizzazione terroristica. Questo riguarda il popolo palestinese”.
Anche il Vaticano ha fatto sentire la sua voce attraverso il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, che ha definito il riconoscimento dei due Stati “la soluzione” e ha denunciato l’uso della fame “come arma” a Gaza.
Settembre, il momento della verità
La partita si gioca ora su un filo sottilissimo. Israele ha fino a settembre per dimostrare quella “sostanziale” volontà di cambiamento che potrebbe far recedere Londra dal suo proposito. Ma le condizioni poste da Starmer – cessate il fuoco, stop all’annessione, impegno per i due Stati – appaiono difficilmente accettabili per il governo Netanyahu, impegnato in una guerra che ha già ridisegnato gli equilibri regionali.
L’appuntamento di settembre all’Assemblea Generale dell’ONU si profila così come un momento di svolta per il Medio Oriente. Se il Regno Unito dovesse mantenere la promessa, insieme a Malta e potenzialmente altri Paesi europei, si aprirebbe uno scenario inedito: un riconoscimento di massa dello Stato palestinese che costringerebbe la comunità internazionale a ridefinire i propri rapporti con entrambe le parti del conflitto.
Resta da capire se questa pressione diplomatica senza precedenti sarà sufficiente a sbloccare una situazione che appare sempre più cristallizzata. O se, al contrario, rappresenterà l’inizio di una nuova fase di isolamento per Israele, con conseguenze ancora tutte da decifrare per l’equilibrio di una regione già ai limiti del collasso.