Il caso, nato da una controversia sull’utilizzo delle email personali dei lavoratori, ha attraversato tre gradi di giudizio. In primo grado, il Tribunale di Milano aveva parzialmente accolto il ricorso della società, ritenendo utilizzabili le comunicazioni estratte da account privati ma confluite sul server aziendale. Secondo i giudici, la corrispondenza doveva considerarsi “aperta” e dunque accessibile.
Ma la Corte d’Appello ha ribaltato il verdetto, respingendo il ricorso del datore di lavoro. La società sosteneva che i dati fossero stati rinvenuti su dispositivi aziendali, quindi liberamente consultabili. Una tesi rigettata dalla Suprema Corte, che ha sottolineato come le email provenissero da account personali protetti da password, anche se ospitati su server aziendali.
La Cassazione ha richiamato i principi sanciti dalla Corte di Strasburgo nel 2017, secondo cui anche le comunicazioni effettuate dai locali dell’impresa o dal domicilio rientrano nella sfera della “vita privata” e della “corrispondenza”, tutelata dall’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Il verdetto non lascia spazio a interpretazioni: il controllo del datore di lavoro deve rispettare criteri di legittimità, proporzionalità e trasparenza. Non è consentito alcun monitoraggio massivo, né tantomeno preventivo. I dipendenti devono essere informati in modo dettagliato sulle modalità e finalità del controllo, che deve essere giustificato da motivi gravi e adottato con strumenti il meno invasivi possibile.
Nel caso specifico, i lavoratori avevano dichiarato di non aver mai autorizzato la ricezione di email personali sul software aziendale né di aver concesso accesso ai propri account. La società, dal canto suo, non ha saputo dimostrare di aver impartito direttive chiare sulle modalità di controllo o duplicazione della corrispondenza.
La sentenza segna un punto fermo nel dibattito sull’equilibrio tra esigenze aziendali e diritti individuali. In un’epoca in cui il confine tra vita professionale e privata è sempre più sfumato, la giurisprudenza riafferma con decisione che la tutela della privacy non è negoziabile.