Robert Redford
La scomparsa della leggenda del cinema Robert Redford, non lascia solo un vuoto artistico, ma apre il capitolo complesso della successione di un patrimonio stratificato, tra immobili iconici, un festival che ha rivoluzionato il cinema indipendente e un impegno ambientale che diventa la sua ultima eredità.
Robert Redford se ne è andato martedì 16 settembre, attore, regista, produttore, ma soprattutto visionario. Redford non ha solo interpretato storie: ha costruito ecosistemi. Ora, quel sistema – fatto di arte, attivismo e asset tangibili – deve affrontare la sua prova più difficile: sopravvivere al suo creatore. La sua morte non è solo la fine di un’era, ma l’inizio di un delicato processo di transizione.
Fonti vicine alla famiglia confermano che Redford aveva da tempo predisposto una struttura legale e fiduciaria solida, designed per garantire la continuità dei suoi progetti senza intoppi. Il focus non è sulla divisione di un bottino, ma sulla preservazione di una missione. Gli eredi e i fiduciari delle sue fondazioni si trovano oggi a gestire non un semplice portafoglio, ma un’istituzione culturale globale.
Negli ultimi anni, Redford ha avviato un meticoloso processo di dismissione delle proprietà più iconiche, in quella che appare come una strategia consapevole di semplificazione e pianificazione successoria. Nel 2024 ha venduto la tenuta di St. Helena, nella Napa Valley, rifugio privato tra i vigneti, per circa 7 milioni di dollari. Sempre lo stesso anno, è finita sul mercato la casa costiera di Tiburon, nella baia di San Francisco, valutata 4,15 milioni. Operazioni che vanno oltre la liquidità: sembrano dettate dal desiderio di definire in vita i confini della sua eredità materiale.
Già nel 2023, aveva ceduto il celebre ranch nello Utah noto come “The Horse Whisperer Ranch”, legato indissolubilmente a una delle sue pellicole più celebri. Ma il cuore del suo regno rimane lo Utah, dove nel 1969 acquistò il Sundance Mountain Resort per salvarlo dalla speculazione edilizia. Ed è lì, in una residenza privata nei dintorni di Provo, che l’attore ha scelto di spendere i suoi ultimi giorni, lontano dai riflettori, accanto alla moglie Sibylle Szaggars. Un altro avamposto significativo rimane la proprietà di Santa Fe, nel New Mexico, cuore pulsante della fondazione ambientalista The Way of the Rain.
Se le proprietà sono il corpo dell’eredità Redford, il Sundance Film Festival è la sua anima. Fondato nel 1990, non è stato solo un festival: è stato un manifesto culturale, una piattaforma di lancio per voci scomode e talenti puri che Hollywood non avrebbe mai osato sfidare. È qui che sono esplosi nomi come Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, Chloé Zhao e Ryan Coogler. Sundance è diventato sinonimo di cinema indipendente, un faro per narrazioni alternative e linguaggi visivi innovativi.
Il Sundance Institute, con sede nello Utah, è l’eredità culturale più vitale e dinamica. Non un asset da valutare in dollari, ma un’istituzione da custodire. La sua gestione postuma sarà la cartina al tornasole della reale continuità del suo progetto. Garantire l’indipendenza e la purezza del festival sarà la sfida più grande per i suoi successori, in un’industria che fagocita tutto.
Due Premi Oscar, un Leone d’Oro alla carriera, una filmografia sterminata. Ma i trofei non bastano a definire Robert Redford. Ha incarnato un’idea di cinema etico e impegnato, capace di dialogare con le urgenze della società. La sua eredità – fatta di pietre, pellicola e principi – è un testamento vivente. Un capitale simbolico che continuerà a finanziare generazioni di artisti, attivisti e sognatori. La sua ultima, grande regia è stata proprio questa: un sistema che potesse funzionare anche senza di lui. Il set è pronto. Ora tocca agli altri recitare la loro parte.