Il colpo di scena arriva nella serata di ieri: Donald Trump raccoglie le valigie e lascia il summit con 24 ore di anticipo. Dietro la partenza, secondo fonti canadesi, una furiosa contrapposizione con Emmanuel Macron e un netto rifiuto a sottoscrivere dichiarazioni congiunte sull’Ucraina. Una ricostruzione che Meloni smonta pezzo per pezzo: “Non era prevista alcuna dichiarazione specifica sull’Ucraina. Il premier Carney ha semplicemente condiviso i punti della sua relazione e tutti erano d’accordo, Trump compreso”.
La versione italiana degli eventi punta a minimizzare le fratture interne all’alleanza occidentale, ma il segnale politico resta devastante: il futuro inquilino della Casa Bianca ha scelto di voltare le spalle ai partner europei proprio mentre il mondo brucia su più fronti.
Il dossier iraniano monopolizza i ragionamenti strategici della premier italiana. La diagnosi è impietosa: “L’Iran non può essere una potenza nucleare, rappresenta una minaccia reale non solo per Israele ma per l’intera stabilità regionale”. I proxy iraniani dal Libano allo Yemen continuano a seminare destabilizzazione, mentre il programma nucleare di Teheran avanza inesorabile.
Ma è proprio in questo scenario di massima tensione che Meloni intravede una possibile svolta: “Penso che sia possibile oggi uno scenario diverso, con negoziazioni serie che portino alla rinuncia iraniana al nucleare”. La chiave, secondo Palazzo Chigi, sta nel cogliere il momento di fragilità del regime degli ayatollah, pressato dalle proteste interne e dall’isolamento internazionale.
La premier italiana non nasconde il suo sogno politico – “Ho sempre pensato che lo scenario migliore fosse quello di un oppresso popolo iraniano che rovescia il regime” – ma rimane ancorata al realismo diplomatico: “Si deve fare il pane con la farina che si ha”.
Sul fronte delle eventuali richieste americane per l’uso delle basi militari italiane, la premier mantiene le carte coperte con un laconico “decideremo” che lascia aperte tutte le opzioni.
È forse sul fronte palestinese che la diplomazia italiana registra i segnali più incoraggianti. “È un momento nel quale si può arrivare a un cessate il fuoco a Gaza”, confida Meloni, forte delle convergenze raccolte nei colloqui bilaterali con tutti i leader presenti al vertice.
La chiave di volta resta il coinvolgimento dei Paesi arabi del Golfo, con i loro asset commerciali e la loro influenza politica sui diversi attori regionali. Una strategia che punta sui buoni uffici delle monarchie petrolifere per sbloccare una situazione che sembrava cristallizzata nel sangue e nella vendetta.
Il presidente ucraino atterra in Canada mentre le sirene antiaeree tornano a suonare nella sua capitale. “Ogni volta che si cerca di fare qualche passo in avanti, la Russia provoca con attacchi brutali sulla popolazione civile”, denuncia la premier italiana, consegnando a Zelensky la solidarietà del popolo italiano.
Il quadro che emerge dalle parole di Meloni fotografa uno squilibrio drammatico: “Ampia disponibilità da parte dell’Ucraina e zero disponibilità da parte della Russia” verso un percorso di pace. La ricetta italiana punta su un doppio binario: sostegno militare continuo a Kiev e pressioni economiche sempre più stringenti su Mosca per “portare la Russia seriamente al tavolo delle trattative”.
Lontano dai riflettori ufficiali, si consuma uno dei faccia a faccia più delicati del vertice: quello tra il futuro presidente americano e la presidente della Commissione europea sui dazi commerciali. “C’è una negoziazione in corso e lo scenario è parecchio cambiato”, rivela Meloni, rivendicando il ruolo italiano nella costruzione di un “dialogo costante, franco ma sicuramente sereno”.
La guerra commerciale tra Washington e Bruxelles potrebbe trovare una soluzione diplomatica grazie alla mediazione italiana, anche se la premier mantiene un ottimismo prudente: “Non voglio dirvi che sono ottimista, ma penso che bisogna continuare a lavorare e che alla fine una soluzione si troverà”.
Il Canada saluta così un G7 che passerà alla storia come il vertice delle grandi tensioni e delle piccole speranze. Con Meloni che torna a Roma con la consapevolezza di aver tenuto insieme i cocci di un’alleanza occidentale sempre più fragile, ma ancora indispensabile per governare le crisi globali.