La Donbass Arena, lo stadio fantasma che racconta il conflitto

La Donbass Arena, lo stadio fantasma che racconta il conflitto
Donbass Arena
2 marzo 2022

L’erba della Donbass Arena è finemente tagliata, i sedili e gli interni ben tenuti, la facciata luccica. Cinquantamila posti, 360milioni di euro per costruirlo, autrice la stessa impresa edile che ha realizzato l’Etihad e l’Allianz arena. Ha ospitato cinque partite a Euro 2012 e la semifinale tra Spagna e Portogallo, terminata 0-0. Quest’opera d’arte abbandonata dal 2014 è un simbolo della guerra in Ucraina, degli oligarchi che hanno fatto fortuna negli anni ’90 e, come spesso accade, lo sport fotografa in anticipo quanto avviene sul campo della politica. La storia della Donbass Arena, dello Shakhtar Donetsk e di Rinat Akhmetov si intrecciano, raccontando di fatto il conflitto tra Kiev e Mosca. L’ultimo tecnico ad aver messo piede nella Donbass Arena è stato Mircea Lucescu. Non lo ha visto l’ex Roma Paulo Fonseca, non lo ha calpestato Roberto De Zerbi partito allo scoppio del conflitto nel 2014 con tutto lo staff grazie a un aereo del proprietario Rinat Akhmetov, l’uomo d’affari più ricco d’Ucraina e proprietario dello Shakhtar, il club che ha vinto 13 degli ultimi 20 campionati ucraini.

Shakhtar (èachtar) in ucraino significa “minatore”: il club è, infatti, culturalmente legato all’area industrializzata del bacino del Donec in cui era molto sviluppata l’attività estrattiva del carbone. Questa regione, nota anche come Donbass (o Donbas), da cui il nome dello stadio di Donetsk, la Donbass Arena, è teatro di una guerra civile in corso dal 2014, motivo per cui lo Shakhtar è stato costretto a disputare altrove le gare interne: dapprima all’Arena L’viv di Leopoli tra il 2014 e il 2017, a seguire dello stadio Metalist di Charkiv dal 2017 al 2020 e, da allora, allo stadio Olimpico di Kiev, città che ospita anche la sede del club. Per molti anni, nelle partite della Dinamo Kiev contro lo Shakhtar si sono affrontate due idee del paese. La Dinamo era il club del nazionalismo ucraino e lo Shakhtar di quello filorusso. Entrambi, con dietro gli oligarchi che difendevano i loro interessi. I fratelli Surkis alla Dinamo e Akhmetov allo Shakhtar.

Figlio di un minatore di carbone, Akhmetov ha iniziato ad acquistare attività minerarie durante la prima ondata di privatizzazioni in Ucraina negli anni ’90. È sempre stato filo-russo, ma le sue attività si sono estese sempre più in tutta l’Ucraina. Per molti anni ha sostenuto finanziariamente il Partito delle Regioni, che andava d’accordo con Mosca. “Akhmetov simboleggia quegli ucraini che parlano russo, che non si sentivano a proprio agio con alcune politiche nazionaliste ucraine, ma che non volevano nemmeno rompere l’Ucraina”, ha spiegato il giornalista ucraino Oleksandr Holiga al quotidiano catalano Ara, che ha ricostruito la storia della Donbass Arena e del suo proprietario. In 10 anni è passato dal vendere bottiglie di Coca-Cola per strada ad essere l’uomo più ricco del paese. Acquistò tutte le miniere di carbone del Donbass, anche se stavano perdendo soldi, solo per far lavorare centinaia di minatori, lui, figlio di minatori, e diventare così una figura amata in una regione dove tutti parlavano russo. Sostenne la politica di Yanukovich, il leader filo-Putin rovesciato da una rivoluzione di piazza nel 2014 e condannato per alto tradimento.

E dalla gestione Yanukovich ottenne il 30% delle gare di appalto pubbliche. Ma quando Yanukovich fuggì, lui rimase a Kiev promettendo ai lavoratori del Donbass filorusso che li avrebbe difesi in nome di un’Ucraina unita. E lì è cominciata la transizione di Akhmetov, da amico di Putin, nemico dei nazionalisti ucraini, finanziatore del partito delle Regioni che aveva portato Yanukovich al potere, a sostenitore del governo nazionalista ucraino filo-Nato e filo-Ue. Il governo di Kiev gli strizza l’occhio e lo Shakhtar continua a giocare nel campionato ucraino nonostante Donetsk non sia più ormai nell’area gravitazionale ucraina, bensì in quella russa. Oggi Akhmetov, che si era offerto di negoziare tra Russia e Ucraina, è finito per fuggire dal Paese, come quasi tutti gli “oligarchi” ucraini, e si è rifugiato a Londra, dove investe buona parte dei suoi soldi. Ha raddoppiato il suo impegno nei confronti dell’Ucraina e nella sua dichiarazione in risposta alla mossa della Russia di riconoscere le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk ha detto: “Voglio sottolineare che le [mie] attività proseguiranno con tutti gli investimenti in cui ci siamo impegnati nei piani del 2022, indipendentemente dagli scenari terribili che affronteremo”, ha affermato.

“Ciò include investimenti a Mariupol. Ho già incaricato la mia fondazione di aiutare con l’evacuazione, le medicine e tutto il necessario, se necessario. Faremo di tutto per prevenire un disastro umanitario”. A gennaio, due mesi dopo che il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky aveva affermato che Akhmetov e altri oligarchi stavano complottando un colpo di stato contro di lui, il governo ucraino ha rimborsato alla società di energia rinnovabile di Akhmetov oltre 100 milioni di dollari di debito per l’energia prodotta dall’azienda. E intanto il braccio russo della sua holding mineraria Metinvest, la Metinvest Eurasia, ha filiali o uffici vendite in 11 città russe – negli ultimi anni si è rivolto sempre più all’Europa e ai mercati occidentali, rispecchiando la politica nazionale ucraina. Gestisce sei impianti eolici e solari in Ucraina, incluso il più grande parco eolico dell’Ucraina, sulle rive del Mar d’Azov, a ovest di Mariupol. Le sue attività in Russia potrebbero essere confiscate ma ora le sue fiches sono puntate sull’Europa e sulla voglia di essere mediatore in un conflitto dove vanta affari dall’una e dall’altra parte.

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