La partita del Quirinale, tanti candidati nessun favorito

La partita del Quirinale, tanti candidati nessun favorito
29 dicembre 2014

di Daniele Di Mario

Cerchiate sul calendario politico del 2015 questa data: 14 gennaio. È il giorno in cui il presidente della Repubbica Giorgio Napolitano – secondo indiscrezioni riportate da La Repubblica – dovrebbe rassegnare le dimissioni. Il Capo dello Stato lo avrebbe annunciato il 24 dicembre al premier Matteo Renzi e al ministro dell’Interno Angelino Alfano, incontrati in due faccia a faccia separati. Il presidente del Consiglio ha insistito molto, nelle ultime settimane, per convincere Napolitano a ripensarci, a spostare un po’ più in là la data dell’addio così da facilitare l’approvazione della nuova legge elettorale e le riforme istituzionali. Ma Renzi avrebbe trovato la porta sbarrata, tanto che dal Colle fanno capire che da qualche tempo il premier non tenta più di far recedere Napolidano dai suoi propositi. La partita dell’Italicum così s’incastra temporalmente con quella del Quirinale ed entrambe per il segretario del Pd rischiano di mettersi in salita.

LE GRANDI MANOVRE

Renzi ai suoi collaboratori spiega che il nuovo Presidente della Repubblica verrà scelto nei quattro giorni che precederanno la riunione del Parlamento in seduta comune e ricorda il precedente di Napolitano nel 2006, quando il nome del Capo dello Stato saltò fuori all’ultimo momento, dopo numerosi tentativi bloccati dai veti incrociati. L’obiettivo è portare al Quirinale “un presidente del Pd, ma non sappiamo ancora chi”. Le grandi manovre, al di là delle dichiarazioni di maniera, sono partite da un pezzo. Basta leggere le parole del vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (FI), che non usa giri di parole nel dire che “Forza Italia ha il coltello dalla parte del manico. Lo dimostrano i fatti e i numeri. L’8 agosto al Senato senza i nostri voti decisivi la parziale riforma della Costituzione non avrebbe visto la luce. Il 20 dicembre, senza i senatori di FI non ci sarebbe stato il numero legale per incardinare la legge elettorale. Siamo noi che decidiamo. Renzi lo sa. Non è lui che detta le condizioni. La garanzia delle riforme siamo noi”. È la linea di Silvio Berlusconi, che, consapevole della marginalità dei numeri parlamentari di FI, vuol tenere aperto il dialogo con Renzi sul Quirinale mettendo sul piatto Italicum e riforme, per evitare che il premier apra canali di dialogo con Sel, M5S e Lega ed elegga un Presidente “sgradito”. Anche se Renzi non vuole far saltare il tavolo col Cav e non vuol proporre nomi palesemente ostili al leader FI. Stefano Fassina prende comunque posizione contro chi rivendica per FI l’onore della prima mossa nella partita a scacchi per il Colle e spiega che “nella partita per il Quirinale a giocare il ruolo del pivot è il presidente del Consiglio e, con lui, il Pd. Il dato oggettivo quello dei numeri del Pd, dopo di che l’obiettivo è avere il massimo coinvolgimento e condivisione su una figura autorevole e autonoma”. Anche Guglielmo Epifani reputa “non obbligatorio” ma “ragionevole e coerente” che il prossimo Presidente della Repubblica sia del Pd. Il Nazareno del resto “non può imporre, ma neppure subire veti”. Chiaro il riferimento alla Lega Nord e a Matteo Salvini, contro cui Epifani dice: “Sentire alcuni partiti dire ‘no a una persona di sinistra’ era ed è inaccettabile”.

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IL RISIKO

Se Berlusconi è consapevole dei pericoli che s’annidano nel Parlamento in seduta comune, altrettanto conscio delle insidie è Matteo Renzi. Il premier sa benissimo che se non riesce a blindare una candidatura condivisa in grado di ottenere oltre 600 consensi al primo scrutinio e di essere eletta entro il terzo, dal quarto-quinto in poi in Aula si rischia il Vietnam. A meno di non voler blindare subito un accordo per il quarto scrutinio. Ma con chi? Con FI? O con i grillini? E la maggioranza che sostiene il governo come si muoverà? Troppe incognite. Per questo in molti consigliano al premier di prendere a modello i casi di Cossiga e Ciampi, entrambi eletti al primo scrutinio con una vasta maggioranza – oltre 700 voti – che comprendeva anche le opposizioni. Anche perché nell’elezione dei giudici costituzionali, il Parlamento ha bruciato tutti i candidati figli del patto del Nazareno.

I PAPABILI

Certe dinamiche i parlamentari le conoscono bene. È per questo che Nichi Vendola prova a scardinare le certezze di Renzi proponendo Romano Prodi al quarto scrutinio e spaccare il fronte Dem. Inviso a Berlusconi, Prodi avrebbe tutto per essere eletto: è del Pd, ha una carriera apprezzabile nelle istituzioni, è ben visto dall’Europa e dagli ambienti istituzionali. Il punto è che Renzi potrebbe optare per un Presidente più low profile (tipo Roberta Pinotti ), ma qualsiasi Capo dello Stato è docile fino al giorno prima dell’elezione, poi acquista comunque una forte connotazione politica e a Renzi potrebbe poi non dispiacere troppo avere un presidente in grado di supportarlo qualora decidesse di arrivare davvero fino al 2018. Dipende da Renzi: opterà per una scelta proiettata al futuro? O penserà all’immediata contingenza. Di certo nessun parlamentare voterebbe un Capo dello Stato col decreto di scioglimento delle Camere in tasca. Né un non politico: in discesa le quotazioni di Sabino Cassese e Lorenzo Bini Smaghi . Pier Carlo Padoan è invece uscito allo scoperto troppo presto benché gradito alla Troika. Restano in campo i nomi di Mario Draghi, Anna Finocchiaro (molto accreditata tra i renziani e apprezzata dalla Boschi) e Paolo Gentiloni . Giuliano Amato è ben visto dal Cav ma non dal Pd. Una candidatura forte potrebbe essere quella di Pietro Grasso , soprattutto dopo l’ondata di inchieste giudiziarie che sta sconvolgendo la politica. In campo ma defilati Massimo D’Alema , Walter Veltroni, Dario Franceschini e Pierluigi Castagnetti . L’ultimo nome sulla ruota del Quirinale è però quello dell’ex segretario Dem Pier Luigi Bersani : andrebbe bene a FI, a Renzi – che non è però affatto entusiasta del’ipotesi – garantirebbe la ricucitura con la minoranza del partito e avrebbe un profilo politico sufficientemente strutturato. Mario Mauro (Popolari per l’Italia), favorevole pure a Draghi, s’è già detto d’accordo. Ma la partita è ancora molto molto lunga.

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