La scintilla è scoccata sabato scorso alla festa di Forza Italia Giovani “Azzurra Libertà” di San Benedetto del Tronto. Un incontro casuale, un saluto di cortesia che si trasforma in veleno politico puro. Carlo Calenda, senatore e leader di Azione, incontra Renato Schifani e non usa mezzi termini: “La Sicilia è da cancellare, da buttare. Questi qui che non aboliscono il voto segreto devono andarsene al confino”.
Parole che colpiscono come un pugno nello stomaco il presidente della Regione siciliana, che abbandona immediatamente la kermesse rinunciando al suo intervento programmato. Il rientro anticipato a Palermo sa di fuga, ma anche di dignità ferita. Schifani aveva tentato una difesa d’ufficio dell’isola – “è la Regione che è cresciuta di più in Italia in termini di Pil” – ma l’attacco frontale di Calenda non ammetteva repliche diplomatiche.
L’eco delle dichiarazioni attraversa lo Stretto e raggiunge Palermo, dove la classe dirigente isolana si compatta in una reazione che sa di riflesso condizionato. Il primo a muoversi è Totò Cuffaro, segretario della Democrazia Cristiana ed ex presidente della Regione condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. La sua replica arriva con il codice stilistico che lo contraddistingue: forbito, erudito, pungente.
Scrive Cuffaro in una nota che profuma di antica retorica siciliana. Un invito alla lettura che suona come lezione impartita al “continentale” di turno, secondo un copione che l’isola conosce a memoria.
Ma Calenda non è tipo da lasciarsi intimidire dalle citazioni colte. La sua risposta arriva nel pomeriggio come una raffica di mitra: “Cuffaro è l’esempio di questa classe di parassiti che distrugge la Sicilia e affama i siciliani. L’unica cosa che ha fatto verso il popolo siciliano è sfruttarlo e nonostante la condanna per favoreggiamento non ha ancora il pudore di tacere e ritirarsi a vita privata”.
Il colpo finale arriva con una citazione che fa tremare i palazzi: “Come diceva Giovanni Falcone: ‘Dove comanda la mafia, i posti nelle istituzioni vengono tendenzialmente affidati a dei cretini'”. Un siluro che colpisce sotto la linea di galleggiamento dell’intera classe dirigente regionale.
Cuffaro non si scompone e risponde con la saggezza di Seneca: “Iniuriam qui facit, quam qui accipit turpior est – È più vergognoso chi fa l’offesa che chi la subisce”. Una lezione di stile antico contro quello che definisce “il tipico comportamento da populista” di Calenda. La dignità siciliana rivendicata come ultimo baluardo contro gli attacchi esterni.
Ma il fronte interno si spacca. Ruggero Razza, deputato europeo di Fratelli d’Italia ed ex assessore regionale, rompe il cerchio magico delle solidarietà automatiche: “Non si può tacere che sul voto segreto Calenda dice una cosa sensata: è una norma da superare”. Una ammissione che sa di resa, il riconoscimento di una sconfitta culturale prima che politica.
Razza ricorda che la battaglia contro il voto segreto all’Assemblea regionale siciliana non è una novità: “Lo aveva già detto Nello Musumeci cinque anni fa, dopo l’indegno voto sulla legge che aveva provato ad intervenire sul sistema dei rifiuti”. Un passato che torna come un boomerang, la conferma che alcuni nodi non si sciolgono mai.
Al centro dello scontro c’è una questione tecnica che diventa simbolo di un sistema: il voto segreto all’Assemblea regionale siciliana. Una norma che consente ai deputati di votare senza rendere conto delle proprie scelte, una prassi che protegge i franchi tiratori e alimenta i giochi di palazzo. Una vergogna, secondo i critici. Una garanzia democratica, secondo i difensori.
Razza rivela che esiste “un percorso, concordato tra il presidente della Regione Schifani e il presidente dell’Assemblea Regionale Gaetano Galvagno, per superare questa vergogna”. Ma aggiunge con ironia amara: “Speriamo solo che al momento della sua possibile abolizione nessuno chieda il voto segreto”.
Il paradosso è servito: per abolire il voto segreto servirebbe un voto che, per tradizione, sarebbe segreto. Un cortocircuito istituzionale che fotografa meglio di mille analisi i limiti di un sistema che fatica a riformarsi dall’interno.