Politica

Vertice delle delusioni su migranti, riforme, Brexit. Juncker sbotta: “M’aspettavo di più, c’è ipocrisia tra i leader”

“Comincio a perdere la pazienza: oggi ho detto ai leader che c’era un elefante bianco nella sala, e questo elefante era l’ipocrisia”. Sono le parole del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che descrivono la sua reazione al mancato accordo dei capi di Stato e di governo dell’Ue, oggi a Bruxelles, per l’istituzione del nuovo corpo europeo di guardie di frontiera e guardacoste da dispiegare ai confini esterni dell’Unione. Parole quanto mai inusuali, anche per lui che alle battute ci ha abituato.

Inizialmente, ormai molti mesi fa, si guardava al Consiglio europeo appena terminato a Bruxelles come al vertice della realizzazione, finalmente, di molte promesse: le riforme necessarie a rendere l’Eurozona più “resiliente”, cioè capace di resistere meglio agli “shock asimmetrici” e alle crisi bancarie, le cinque nuove normative su immigrazione e asilo e protezione delle frontiere esterne, e poi un accordo sulla Brexit convincente anche per il Parlamento del Regno Unito, e non solo per il governo di Londra, in modo da procedere alla sua ratificazione ed entrata in vigore in tempo per la scadenza dei negoziati, il 29 marzo 2019. Nonostante l’affermazione del presidente francese Emmanuel Macron, che ha parlato di “vertice dei risultati”, da questi due giorni di discussioni esce invece ben poco.
Innanzitutto, c’è un inizio di negoziato, per una volta abbastanza tempestivo, sul prossimo quadro di bilancio pluriennale dell’Ue (2021-2027), che dà buona speranza di arrivare a un primo accordo in meno di un anno, nell’autunno 2019.

In secondo luogo, c’è un risultato minimo – che avrebbe potuto essere conseguito già da tempo – sul Fondo comune di risoluzione bancaria, chiamato “backstop”, cioè rete di sicurezza (proprio come il più noto meccanismo di garanzia per l’Irlanda nella Brexit, che è tutt’altra cosa). E c’è una riforma del “Fondo salva-Stati” (Esm), che tuttavia è ben lontana dall’idea iniziale di creare un “Fondo Monetario europeo” sulla falsariga del Fmi. L’Esm non invaderà il territorio della Commissione europea nella funzione di sorveglianza dei bilanci degli Stati membri (una soluzione perorata dalla Germania, ma avversata dall’Italia). Ma nella riforma dell’Esm c’è anche una semplificazione delle “clausole di garanzia” per i detentori di titoli di Stato in caso di ristrutturazione del debito; un dettaglio apparentemente tecnico, ma che potrebbe avere come effetto un aumento del premio di rischio imposto dai mercati ai titoli dei paesi più indebitati.

Tutte le altre riforme che avrebbero dovuto “approfondire l’Unione economica e monetaria”, e completare l’Unione bancaria, così come volevano la Commissione europea, la Francia di Macron, e anche l’Italia (almeno col governo precedente), nei mesi scorsi sono state via via eliminate dall’agenda, che alla fine è rimasta come un pollo spennato. E quindi niente Edis, la garanzia europea dei depositi (fino a 100.000 euro) che pure dovrebbe essere parte integrante dell’Unione bancaria. La Germania e i suoi alleati rigoristi non cesseranno mai di chiedere sempre più misure di “riduzione del rischio” per poter fare questa concessione in termini di “condivisione del rischio”. E niente ‘capacità di bilancio’ dell’Eurozona in funzione di stabilizzazione, per assorbire gli shock interni o esterni, che colpiscono un singolo paese (“asimmetrici”). E’ già considerato un gran passo avanti il fatto che l’idea del Fondo dell’Eurozona non sia stata semplicemente buttata nella spazzatura della storia, ma accettata per le sole funzioni che andavano bene alla Germania e ai suoi alleati: il sostegno alle riforme strutturali e alla “convergenza”, condizionato però al rispetto di tutte le norme di rigore finanziario costruite per imporre le politiche d’austerità.

“Ho l’impressione che non stiamo avanzando abbastanza rapidamente sulla riforma dell’Eurozona”, ha detto, con senso dell’eufemismo, Juncker. Che poi si è impegnato, comunque, a continuare sulla strada indicata con le proposte legislative già presentate, che prevedono di dedicare 50 miliardi di euro, nel prossimo quadro di bilancio pluriennale, a questo nuovo “bilancio” dell’Eurozona “per entrambe le sue funzioni, quella di convergenza e quella di stabilizzazione”. E se la caduta verticale delle ambizioni nelle riforme dell’Eurozona era ampiamente scontata, dopo i negoziati in gran parte vani dei mesi scorsi, più sorprendente è il mancato accordo nel settore della politica d’immigrazione, asilo e Affari interni. La Commissione, con una mossa tanto pragmatica quanto discutibile, aveva cercato di spingere avanti un complesso di normative non particolarmente controverse (regolamenti su qualifiche dei migranti, sullo scambio dei dati nel sistema Eurodac, sulla nuova Agenzia europea dell’Asilo, sui “reinsediamenti”, e direttiva sulle condizioni d’accoglienza), “spacchettandole” dalle due misure bloccate invece dai veti incrociati, la riforma del Regolamento di Dublino sull’Asilo e le nuove norme sulle procedure d’asilo.

L’Esecutivo comunitario pensava di poter far adottare al Consiglio Ue almeno le cinque normative meno controverse, prima delle elezioni europee di maggio, considerando invece irrealistico un accordo sulle altre due misure spacchettate. Ma i leader dei Ventisette non si sono intesi neanche per sostenere questo approccio minimalista. Inoltre, resta bloccata anche l’ambiziosa iniziativa della Commissione per la creazione di una vera e propria guardia di frontiera e guardacoste europea, per rafforzare la sorveglianza dei confini esterni dell’Unione, con il dispiegamento di 10.000 agenti. In progetto c’è anche un rafforzamento dell’Agenzia Frontex, che le permetterebbe di negoziare accordi di rimpatrio con i paesi terzi di origine e di transito dei migranti senza diritto alla protezione internazionale. Juncker, dopo aver detto di essere ancora “meno soddisfatto dei risultati del vertice sull’immigrazione e asilo”, si è sfogato in sala stampa: “Sulla protezione delle frontiere esterne comincio a perdere la pazienza: c’è un elefante bianco nella sala, l’ipocrisia”. A bloccare queste riforme, infatti, sono soprattutto i paesi con governi “sovranisti” (Austria, i paesi dell’Est e ora anche Italia) che non vogliono autorizzare il passaggio di forze armate europee, quindi “straniere”, sul loro territorio nazionale.

Negli anni scorsi, ha ricordato il presidente della Commissione, “tutti gli Stati membri hanno fatto pressioni su di noi per assicurare e rafforzare i controlli sui confini esterni per mare e a terra. E io ho proposto 10.000 nuove guardie europee di frontiera entro fine 2020. Da qui – ha continuato – il mio stupore nel vedere che proprio i paesi più interessati” dal problema migratorio “si sono opposti” a quella proposta”. “Non mi si dica mai più – ha concluso Juncker – che bisogna rafforzare le frontiere esterne: che si attuino le proposte della Commissione”. Sulla Brexit, infine, i leader dei Ventisette non hanno davvero fatto un grosso sforzo di immaginazione. Il problema sul tavolo è ormai uno solo: il “backstop” per l’Irlanda del Nord, la soluzione provvisoria di garanzia per evitare, dopo la Brexit, il ripristino di una “frontiera dura” fra Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, che è parte del Regno Unito. Il “backstop” (rete di sicurezza) prevede sostanzialmente la permanenza provvisoria dell’Irlanda del Nord nel Mercato unico, e contemporaneamente della Gran Bretagna nell’Unione doganale dell’Ue. Se non sarà stato trovato prima, fra l’Ue e i britannici, un migliore accordo per il futuro, capace di risolvere in altro modo il problema irlandese, il “backstop” scatterà alla fine del periodo di transizione (durante il quale tutto il Regno Unito resterà ancora nel mercato unico), il 31 dicembre 2020, oppure uno e due anni più tardi se Londra e i Ventisette avranno deciso, di comune accordo, una proroga.

Il problema, per i britannici, è che il “backstop” nell’Accordo di recesso non ha una scadenza precisa: si dice che finirà “se e quando” sarà stato raggiunto il nuovo accordo futuro; e che la decisione di porvi fine dovrà essere presa congiuntamente dalle due parti. E questo viene ripetuto pari pari nella nuova dichiarazione del vertice Ue. Questo pone in posizione di debolezza il Regno Unito, che finché sarà nell’Unione doganale prevista dal “backstop” non potrà avere una propria politica commerciale autonoma dall’Unione. Dopo la discussione di ieri sera a cena con la premier britannica Theresa May, che chiedeva una concessione concreta da riportare a Londra, magari l’impegno dell’Ue a dare una durata limitata al “backstop” (nel caso in cui dovesse entrare in vigore), i leader dei Ventisette hanno partorito delle conclusioni piuttosto ripetitive, che riconfermano quanto già si sapeva dopo il precedente vertice Ue del 25 novembre. La dichiarazione, insomma, non sembra poter offrire elementi in più per tranquillizzare Londra sul “backstop”. Ma, paradossalmente, alla premier britannica potrebbe essere utile proprio il fermo “no” ribadito dai Ventisette alla rinegoziazione dell’Accordo di recesso, per dimostrare quanto siano illusorie le pretese, avanzate da tanti politici a Westminster, di chiedere nuove trattative con l’Ue per un “better deal”.

L’Accordo, sottolineano i leader dei Ventisette, “non è aperto a una rinegoziazione”. Ma il Consiglio europeo, continua la dichiarazione, “è pronto a intraprendere immediatamente i preparativi, dopo la firma dell’Accordo di recesso, per garantire che i negoziati” sulle relazioni future “possano iniziare non appena possibile dopo l’uscita del Regno Unito”. Le conclusioni del vertice sottolineano quindi “che il ‘backstop’ è inteso come una polizza assicurativa per prevenire il ripristino di una frontiera dura nell’Isola d’Irlanda e assicurare l’integrità del Mercato unico” dell’Ue. E aggiungono che, da parte dell’Unione “c’è la ferma determinazione a lavorare speditamente a un accordo successivo” con il Regno Unito, “che stabilisca entro il 31 dicembre 2020 accordi alternativi, in modo che non sia necessario attivare il ‘backstop'”. E questo è lo sforzo maggiore fatto per venire incontro alla May. Il Consiglio europeo termina con una sorta di avvertimento, chiedendo “che venga intensificato il lavoro di preparazione a tutti i livelli per affrontare le conseguenze del ritiro del Regno Unito” dall’Ue, e questo “tenendo conto di tutti i possibili risultati” del negoziato in corso. Dunque mettendo in conto anche la possibilità di un “no deal”, ovvero il fallimento dell’Accordo di recesso, che porterebbe all’incubo della Brexit “disordinata”. Una prospettiva che pochi, a Westminster, dicono di volere davvero, ma che col passare dei mesi diventa sempre più realistica. askanews

Segui ilfogliettone.it su facebook
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a redazione@ilfogliettone.it
Condividi
Pubblicato da