L’imam torna libero, Meloni contro i giudici: “Così si mina l’ordine pubblico”
Mohamed Shahin
La Corte d’Appello di Torino ha ordinato la cessazione del trattenimento dell’imam Mohamed Shahin, destinatario di un decreto di espulsione firmato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. L’uomo, al centro delle polemiche per frasi sul 7 ottobre giudicate giustificative del terrorismo, ha lasciato il Cpr di Caltanissetta. La decisione ha provocato la dura reazione della premier Giorgia Meloni, che parla di un corto circuito sulla sicurezza nazionale.
L’imam Mohamed Shahin è tornato in libertà. La decisione è arrivata dalla Corte d’Appello di Torino, che ha accolto uno dei ricorsi presentati dai suoi avvocati e disposto la cessazione del trattenimento nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Caltanissetta, dove l’uomo era rinchiuso dal 24 novembre. All’uscita dalla struttura, la Questura gli ha consegnato un permesso di soggiorno provvisorio.
Il provvedimento dei giudici piemontesi ha di fatto congelato l’efficacia del decreto di espulsione firmato dal titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, motivato da ragioni di sicurezza dello Stato. Una scelta che ha immediatamente innescato lo scontro politico.
Lo scontro tra governo e magistratura
A intervenire è stata direttamente la presidente del Consiglio. «Parliamo di una persona che ha definito l’attacco del 7 ottobre un atto di “resistenza”, negandone la violenza», ha scritto Giorgia Meloni su Facebook. «Dalle mie parti significa giustificare, se non istigare, il terrorismo. Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?».
Parole che riassumono il nodo politico della vicenda: il conflitto tra le valutazioni dell’autorità giudiziaria e quelle dell’esecutivo in materia di prevenzione e sicurezza. Per la Corte d’Appello, alla luce di nuova documentazione prodotta dalla difesa, non sussisterebbero elementi tali da configurare una minaccia per l’ordine pubblico o per la sicurezza dello Stato. Una conclusione diametralmente opposta a quella delle autorità di polizia.
Chi è l’imam finito al centro del caso
Mohamed Shahin, 47 anni, di origini egiziane, vive in Italia dal 2004. È sposato, ha due figli ed è una figura conosciuta nella comunità islamica torinese, dove guida la moschea Omar Ibn Al Khattab, nel quartiere di San Salvario. Per anni la sua attività è rimasta confinata all’ambito locale, tra iniziative religiose e culturali.
La sua notorietà nazionale esplode tra il 2023 e il 2024, quando alcune prese di posizione pubbliche sul conflitto israelo-palestinese attirano l’attenzione delle istituzioni. Da quel momento prende forma un contenzioso complesso, politico e giudiziario, che culmina prima nel diniego della cittadinanza italiana e poi nel decreto di espulsione.
Le frasi sul 7 ottobre e le indagini
Il punto di svolta è il 9 ottobre, due giorni dopo l’attacco di Hamas in Israele. Durante una manifestazione pro Palestina a Torino, Shahin interviene dal palco sostenendo che quanto accaduto non possa essere definito violenza, ma vada letto nel contesto storico del conflitto. Una posizione che scatena polemiche immediate, soprattutto alla luce dei numeri della strage: circa 1.200 morti e 250 ostaggi.
In seguito alle proteste, l’imam ha precisato di non schierarsi con Hamas. «Non posso parlare solamente del 7 ottobre», ha spiegato, definendolo l’esito di decenni di occupazione e guerre. La Digos trasmette una segnalazione alla Procura di Torino, che apre un fascicolo. Ma il 16 ottobre arriva l’archiviazione: per i magistrati, quelle parole non integrano fattispecie di reato. Sul piano penale, Shahin risulta denunciato solo per un episodio di blocco stradale durante un corteo.
Il doppio binario amministrativo e politico
Se il fronte penale si chiude rapidamente, quello amministrativo resta aperto. Nel novembre 2023 il Ministero dell’Interno respinge la richiesta di cittadinanza italiana dell’imam, richiamando “ragioni di sicurezza dello Stato”. Un giudizio che pesa come un macigno nei successivi sviluppi.
Il 25 novembre arriva il decreto di espulsione firmato da Piantedosi. Nel documento, Shahin viene descritto come una «minaccia concreta, attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Si parla di un presunto percorso di radicalizzazione religiosa, di posizioni ideologiche connotate da antisemitismo e di contatti con ambienti vicini a interpretazioni violente dell’Islam. Le frasi del 9 ottobre vengono citate come elemento di contesto, ritenute capaci di alimentare tensioni anche all’interno del fronte pro Palestina.
La decisione dei giudici e le reazioni
Dopo il trasferimento nel Cpr di Caltanissetta, la svolta arriva con la decisione della Corte d’Appello di Torino. I giudici ritengono insufficienti gli elementi per giustificare il trattenimento e l’espulsione immediata, aprendo di fatto una nuova fase del caso.
La liberazione dell’imam è stata accolta con soddisfazione dal movimento Torino per Gaza, che fin dall’inizio si era mobilitato contro l’ipotesi di un rimpatrio in Egitto, ritenuto un Paese non sicuro. «Il suo unico reato è aver gridato la libertà per la Palestina», hanno sostenuto gli attivisti, parlando di islamofobia e razzismo.
Una vicenda destinata a far discutere
Il caso Shahin resta emblematico di una frattura profonda. Da un lato, il governo rivendica il diritto-dovere di intervenire in chiave preventiva quando ritiene in gioco la sicurezza nazionale. Dall’altro, la magistratura richiama il rispetto delle garanzie e la necessità di fondare ogni misura su elementi concreti e verificabili.
La liberazione dell’imam non chiude la partita. Al contrario, rilancia un dibattito che va oltre il singolo caso e investe il rapporto tra giustizia, politica e sicurezza, in un contesto internazionale segnato da tensioni crescenti e da parole che, più dei fatti, continuano a dividere.
