Sergio Mattarella
Il Cremlino alza il tiro e punta dritto al Quirinale. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è finito nella lista nera dei “russofobi” pubblicata dal ministero degli Esteri di Mosca, insieme ai ministri Antonio Tajani e Guido Crosetto. Un’escalation diplomatica che segna un punto di non ritorno nei rapporti già tesi tra Roma e il regime di Putin.
La provocazione non è casuale né simbolica: è politica, calcolata, diretta al cuore dello Stato italiano. Sul sito del dicastero russo, sotto la voce “Italia”, campeggiano ora tre citazioni che bastano a certificare lo status di “nemico”: le parole di Mattarella pronunciate al cimitero militare polacco di Montecassino per l’80° anniversario della battaglia, dove il capo dello Stato ha ricordato come “la tragedia del popolo ucraino ci inviti a rinnovare il nostro impegno nella difesa della pace, della libertà e dello stato di diritto dai regimi dittatoriali”. Crimini di pensiero democratico, evidentemente.
Non meno gravi, agli occhi di Mosca, le dichiarazioni di Tajani che ha osato paragonare i combattenti ucraini ai partigiani del 1945, e quelle di Crosetto che ha avuto l’ardire di dire ciò che tutti sanno: “Putin vuole tutta l’Ucraina, e nessuno garantisce che si fermerà lì”.
La reazione italiana è stata immediata e compatta. Tajani ha convocato l’ambasciatore russo per una contestazione formale, definendo l’inserimento del presidente “una provocazione alla Repubblica e al popolo italiano”. Dal Parlamento si è levato un coro unanime di solidarietà che ha attraversato tutti gli schieramenti politici, da La Russa a Fontana, da Meloni ai leader dell’opposizione.
“L’ennesima operazione di propaganda per distogliere l’attenzione dalle gravi responsabilità di Mosca”, ha commentato la premier Giorgia Meloni, ribadendo la ferma posizione italiana al fianco dell’Ucraina. In Senato, il democrat Graziano Delrio ha parlato di “attacco inaccettabile che il popolo italiano respinge”, mentre Stefania Craxi di Forza Italia ha definito “osceno” il colpo al sistema democratico italiano.
Ma al di là delle reazioni di circostanza, questo episodio svela qualcosa di più profondo e inquietante. La Russia di Putin non si limita più a catalogare come nemici i governi che le si oppongono: ora prende di mira direttamente i simboli della democrazia occidentale, trasformando in “russofobia” quello che fino a ieri era considerato normale esercizio dei valori costituzionali.
L’operazione del Cremlino non è un gesto diplomatico, ma un atto di guerra ibrida che mira a destabilizzare le istituzioni democratiche dall’interno, a seminare divisioni, a trasformare la normale dialettica politica in scontro identitario. Quando pronunciare parole come “libertà”, “stato di diritto” e “resistenza ai regimi dittatoriali” diventa motivo per finire in una lista nera, significa che il conflitto non è più solo in Ucraina.
La vera domanda che questo episodio pone non riguarda l’Italia, ma la Russia: un paese che considera “odio” la difesa dei valori democratici, che cataloga come “nemici” chi ricorda i sacrifici per la libertà, che trasforma in “fobia” la semplice verità storica, può ancora essere considerato un partner credibile dalla comunità internazionale?
La risposta, forse, è già scritta nelle tre citazioni finite sul sito di Mosca. Perché quando dire la verità diventa un crimine, il problema non è chi la dice, ma chi non riesce più a sentirla.