Nella rete dell’inchiesta della Procura di Reggio Calabria, coordinata dal procuratore capo Giuseppe Lombardo, è finito un religioso ora in carcere con l’accusa di violenza sessuale su minore, reati che si sarebbero protratti dal 2015 al 2020. Il giovane, all’epoca adolescente in difficoltà familiare, era un frequentatore delle attività parrocchiali organizzate dallo stesso sacerdote. Un rapporto iniziato con attenzioni, adulazioni, apparente protezione. Poi, la deriva: abusi sessuali ripetuti, consumati tra le mura della chiesa, in spazi appartati dove nessuno avrebbe mai pensato di cercare un crimine.
Ma è un dettaglio a scavare il vuoto: secondo le testimonianze raccolte dai carabinieri della compagnia di Reggio Calabria, dopo ogni atto violento, il prete avrebbe impartito una benedizione alla vittima, chiedendo perdono a Dio per il “peccato” appena commesso. Una messinscena sacrilega, in cui il sacramento diventava strumento di assoluzione per chi non voleva pentirsi, ma solo continuare.
Il giovane, pur provato dal dolore e dal senso di colpa indotto, non ha reagito. Non poteva. Era prigioniero di un legame perverso: il timore di perdere l’unica figura di riferimento, la paura di essere emarginato dalla comunità, il condizionamento psicologico alimentato con lucida premeditazione. Il sacerdote, secondo l’accusa, non ha agito per impulso, ma con metodo: ha costruito una relazione di dipendenza, sfruttando il disagio del ragazzo come leva di controllo.
E quando i sospetti si sono fatti più insistenti, il religioso non è stato isolato. È stato trasferito — in una parrocchia della provincia di Cosenza — dove, nonostante le ombre sul passato, ha continuato a svolgere attività con minori. Un dettaglio che non può essere archiviato come errore amministrativo. È una falla sistemica.
L’ordinanza del gip di Reggio Calabria si fonda su un impianto probatorio solido: riscontri testimoniali, acquisizioni documentali, attività tecniche. Ma oltre le carte, c’è un conto aperto con la Chiesa stessa. Con le sue procedure di trasferimento. Con la sua resistenza storica a trasparenza e rendicontazione nella gestione del clero. Con quel velo di sacralità che troppo spesso ha funto da scudo.
La diocesi ha dichiarato piena collaborazione con le autorità. Ma le parole non bastano. Non quando il crimine si è consumato all’ombra dell’altare. Non quando il rito è stato usato come copertura. Questa non è solo la storia di un prete criminale. È la storia di un sistema che, ancora una volta, ha fallito nel proteggere chi era debole. E mentre la magistratura fa il suo dovere, la domanda che rimane — forte, scomoda — è un’altra: quanti altri silenzi si nascondono dietro le porte delle nostre chiese?