I luoghi del sesso, quartieri a luci rosse. Ieri e oggi.

I luoghi del sesso, quartieri a luci rosse. Ieri e oggi.
24 gennaio 2015

Sempre più di frequente si sente parlare di un’Italia che va modernizzandosi, seguendo le mode degli altri paesi su ciò che riguarda la sessualità e in particolare sui luoghi da legalizzare in cui delimitare il sesso a pagamento: i quartieri a luci rosse. Ciò significa accettare che la prostituzione faccia parte della vita quotidiana. Il tentativo è quello di combattere il fenomeno della prostituzione minorile che, soprattutto negli ultimi periodi, sembra aver preso piede: ragazze, spesso provenienti dall’Est, minorenni, sono ridotte in schiavitù e costrette a vendersi. Avere quindi delle zone a luci rosse permetterebbe maggior tutela e controlli. Ma quali sono le ragioni più profonde che spingono a richiedere il sesso a pagamento? Su questo argomento ci sono numerose ricerche che permettono di avere un’ampia panoramica del fenomeno. Le interviste fatte a uomini che frequentano prostitute ci offrono risposte che oscillano tra il puro soddisfacimento di un bisogno sessuale e la necessità di vivere una sessualità dominante, con donne ritenute esseri inferiori. Resta comunque importante non generalizzare troppo su questo argomento, visto che il concetto di prostituzione cambia molto in base al periodo e alle culture.

Per esempio, in Giappone, nel 1600, durante feste molto importanti cominciarono a comparire le prime geisha, che in principio erano uomini; ben presto, però, la grazia della figura e dei movimenti femminili presero, prima il sopravvento, poi l’esclusiva. Il termine geisha significa “persona d’arte”; infatti l’apprendimento di questa professione richiedeva fino a cinque anni di formazione, durante i quali una ragazza doveva acquisire abilità ben precise: saper suonare, danzare, cantare, servire il té e le bevande alcoliche, avere nozioni di poesia e letteratura, e il tutto per intrattenere i clienti. Nel 1617, sempre in Giappone, la prostituzione diventò legale, facendo nascere numerose case di appuntamento e la confusione tra la professione della geisha e della prostituta, che spesso venivano sovrapposte. Solo nel 19°esimo secolo furono creati dei quartieri, detti hanamachi, dove presero vita le case da tè, ben distinte dai bordelli. Un altro famoso esempio riguarda uno dei più conosciuti quartieri a luci rosse d’Europa: De Wallen, ad Amsterdam (foto). In Olanda la prostituzione è legale dal 1815, e dal 1996 è tassata dal Governo Olandese. In questo quartiere, oltre a trovare prostitute che offrono i loro servizi dietro ad una parete o una porta di vetro, illuminata dalle tipiche luci rosse, si possono trovare un gran numero di sexy shop, teatri erotici, peep show, un museo del sesso e uno della cannabis e numerosissimi coffee-shop. Il termine “luci rosse” sembra abbia origine nel Far West, dove i mandriani, una volta consegnato il bestiame, si “rilassavano” per qualche giorno in compagnia di prostitute incontrate in saloon o nei bordelli.

In molte cittadine, già a quei tempi, vietavano alle prostitute di vendere la loro “merce” nei centri urbani, relegandole in quartieri più periferici. La terminologia “a luci rosse” sembra avere diverse spiegazioni, ma tutte sono tese a identificare la natura del posto: l’amore a pagamento. Alcune fonti suggeriscono che derivi dalle lanterne rosse usate dai lavoratori delle ferrovie, che venivano lasciate fuori dalla casa d’appuntamenti quando gli operai vi entravano; altre fonti, affermano che le prostitute che lavoravano ad Amsterdam cercavano di adescare i pescatori con le loro luci, e poiché le luci bianche si mischiavano troppo con le altre, usarono della stoffa rossa per dare alle loro luci un altro colore. Oggi la tecnologia e l’uso incontrollato di internet permettono di accedere ancor più facilmente a certi “luoghi”. La ricerca di sesso senza amore, completamente scisso dai sentimenti, è incalzato e accentuato dalla società contemporanea, condizionata dai non valori promossi dalla televisione e dai servizi giornalistici di gossip. Il tutto è falsamente ispirato al bello, alla ricchezza materiale e all’apparenza, rischiando di rendere ogni giorno più difficile un linguaggio emozionale che tenga in considerazione il rispetto per sé e l’altro.

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