E dire che doveva essere un giorno di morigeratezza. Nel 1646, nel pieno di una grave carestia i palermitani si rivolsero a Santa Lucia e arrivo’ in porto una nave carica di grano. La fame era tanta e saltarono la molitura: lo bollirono e lo mangiarono cosi’ com’era, aggiungendogli soltanto un filo d’olio. È la nonna della cuccia (con l’accento sulla ‘i’), oggi arricchita con ricotta dolce e gocce di cioccolata. Ma il 13 dicembre è soprattutto il giorno dell’arancina, invariabilmente con la ‘a’ nel capoluogo siciliano. “Noi celebriamo l’arancina noi la veneriamo, lei e la sua tondità solare, sfera a carne o a burro, palla, piccola arancia, fimmina”, recita Davide Enia, attore e scrittore. Ciò che varia sempre piuù della specialità siciliana a base di riso sono gli ingredienti. L’arancina 2.0 si contamina con pesce spada, salmone, gamberetti, pistacchi, pollo, e persino curry.
Tradizionalmente rotonda, ma visibile anche a punta, fritta o al forno, salata oppure dolce. Ma certamente femmina, almeno all’ombra di Monte Pellegrino. Guai a chiamare queste simbolo dello street food locale, arancini, al modo della Sicilia sud-orientale: anche Montalbano sarebbe trattato a malo modo. Della spinosa questione si è occupata persino l’Accademia della Crusca che compie in premessa un rimando storico alla dominazione araba in Sicilia, che duro’ dal IX all’XI secolo. Gli arabi avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo. Il paragone con le arance era naturale in Sicilia dato che l’isola ne è sempre stata ricca. In realtà, però, non ci sono tracce di questa preparazione nella letteratura, nelle cronache, nei diari, nei dizionari, nei testi etnografici, nei ricettari e così via prima della seconda meta’ del XIX secolo. Si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda meta’ del XIX secolo come dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata.
Nel dialetto siciliano, come registrano tutti i dizionari dialettali, il frutto dell’arancio è aranciu e nell’italiano regionale diventa arancio. Del resto, alla distinzione di genere nell’italiano standard, femminile per i nomi dei frutti e maschile per quelli degli alberi, si giunge solo nella seconda metà del Novecento, e molti in varie regioni italiane continuano tuttora a usare arancio per dire arancia. Al dialettale aranciu per ‘arancia’ corrispondono il diminutivo arancinu per ‘piccola arancia’, arancino nell’italiano regionale: da qui il nome maschile usato per indicare il suppli’ di riso. I dizionari concordano sul genere di arancino, ma le indicazioni del genere del nome che indica il frutto dell’arancio sono oscillanti: le due varianti arancio e arancia coesistono, con una prevalenza del femminile nell’uso scritto e una maggior diffusione del maschile nelle varietà regionali parlate di gran parte della penisola. Il femminile tuttavia è percepito come più corretto – almeno nell’impiego formale – perché l’opposizione di genere e’ tipica nella lingua italiana, con rare eccezioni, per differenziare l’albero dal frutto.
Si può ipotizzare, secondo l’Accademia della Crusca, che “il prestigio del codice linguistico standard, verso cui sono sempre state più ricettive le aree urbane, abbia portato la forma femminile arancia a prevalere su quella maschile arancio nell’uso dei parlanti palermitani che, avendo adottato la forma femminile per il frutto, l’hanno di conseguenza usata nella forma alterata anche per indicare la crocchetta di riso”. Dunque, arancina: la radicale diversità dell’esito locale può aver fatto sì che quando si è assunto il termine italiano per indicare il frutto lo si sia fatto nella forma codificata arancia, da cui arancina. “Si potrebbe allora concludere che chi dice arancino italianizza il modello morfologico dialettale, mentre chi dice arancina non fa altro che riproporre il modello dell’italiano standard”.