Pd al bivio, Renzi alla prova urne per evitare resa dei conti

Pd al bivio, Renzi alla prova urne per evitare resa dei conti
3 marzo 2018

E’ significativo che, alla vigilia del voto, Matteo Renzi senta il bisogno di avvisare tutti che le elezioni non sono “primarie interne” del Pd. Se il dopo-referendum aveva portato la scissione fin troppo annunciata di Bersani e D’Alema, stavolta i rumors interni al Pd raccontano un partito in fibrillazione, che non ha ancora digerito le scelte del leader sulle liste elettorali e che si prepara a presentare un conto salato se le cose dovessero andare male. L’ex premier continua a parlare di un Pd che “può essere il primo gruppo parlamentare”, ma la verità è che conterà soprattutto la differenza di voti tra i democratici e Fi, perché è probabile che innanzitutto da questo dipenderà la “casacca” del prossimo presidente del Consiglio e la tenuta stessa del partito guidato da Renzi. Renzi evoca lo scenario di un governo M5s-Lega per provare a riportare a casa più indecisi possibile, mentre nega qualsiasi possibilità di accordo con Berlusconi, come del resto fa anche il leader di Fi, e non potrebbe essere altrimenti, alla vigilia del voto. Ma i suoi compagni di partito, dalle minoranze di Andrea Orlando e Michele Emiliano, fino a Walter Veltroni e ampi pezzi della stessa maggioranza congressuale, pensano che l’ipotesi più probabile sia quella di un bis del 2013, con uno stallo in Parlamento che può sfocare in nuove larghe intese. Ipotesi che preoccupa tanti nel Pd, non solo nella minoranza, perché con Renzi che controlla i gruppi parlamentari per molti significherebbe restare fuori dai giochi per i prossimi anni.

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E non a caso molti già evocano un nuovo congresso. Non a caso, più o meno esplicitamente, già in tanti hanno alzato le barricate contro le ipotesi di un accordo con Berlusconi: Emiliano è arrivato a sollecitare persino il sostegno ad un eventuale governo Di Maio, pur di scongiurare l’abbraccio con Fi. Orlando e i suoi non arrivano fino a questo punto, ma non sono disposti ad avallare nuove larghe intese che durino 5 anni e qualcosa di simile ha detto Veltroni. Franceschini aveva ipotizzato nei mesi scorsi il fronte dei partiti “di sistema” come argine ai populisti, ma adesso tace e aspetta di vedere che risultato uscirà dalle urne. Renzi, dal canto suo, ha già detto che non ha intenzione di mollare, neanche in caso di sconfitta – e sulla definizione di sconfitta, come è ovvio, ci sarà molto da discutere. L’asticella del 25%, i voti presi da Bersani nel 2013, metterebbe Renzi abbastanza al riparo da incursioni: il segretario potrebbe rivendicare di avere preso gli stessi voti di 5 anni fa, nonostante una scissione, anche se resterebbero i tanti maldipancia nel partito per come sono state composte le liste. Al contrario, stare intorno o poco sopra al 20% aprirebbe probabilmente quelle “primarie interne” citate da Renzi nell’intervista a Repubblica. Nella minoranza di Orlando qualcuno tracciava questo scenario, a pochi giorni dal voto: “Se Renzi va male e pretende di andare avanti come niente fosse può succedere di tutto, per noi sarebbe difficile restare nel partito se le cose non cambiano. Tanto più che anche alla nostra sinistra si muoverà qualcosa, difficile che Liberi e uguali resti unito, e Zingaretti potrebbe vincere nello stesso giorno in cui il Pd perde le politiche…”.

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Per questo, il dibattito anche sull’eventuale “governo di scopo” sarà duro nel Pd, se Renzi non riuscirà a prendere un risultato più che soddisfacente. L’idea che gira, come confermano le parole di Veltroni di qualche giorno fa, è quella appunto di un esecutivo con un programma molto limitato, centrato sulla riforma della legge elettorale e con un orizzonte temporale di uno-due anni massimo. Il tempo necessario a riaprire i giochi congressuali nel Pd e a presentarsi a nuove elezioni con un altro leader. Anche le uscite pubbliche di Romano Prodi ed Enrico Letta sono segnali chiari per il segretario: sostegno alla coalizione, a Gentiloni, ma non necessariamente al Pd. I leader storici sono pronti a tornare in partita, se non altro per provare a cambiare gli equilibri nel Pd, dopo il voto, e a ricostruire un diverso centrosinistra, magari appunto intorno ad una nuova leadership. Renzi non è disposto a mollare di un millimetro, lo ha già detto e spera di poter contare, appunto, su gruppi parlamentari in gran parte a lui fedeli. Il segretario democratico ha anche detto una frase significativa negli ultimi giorni, che non sembra casuale alla luce dei ragionamenti sul governo di scopo che circolano nei corridoi del palazzo: “Se il Pd non sarà il primo partito è pronto ad andare all’opposizione”. Un’ipotesi molto diversa da quella di chi parla di rivotare nel giro di uno-due anni, magari dopo aver rifatto il congresso. Un modo per dire che il Pd non entrerà a tutti i costi in un esecutivo. Tutto, appunto, dipenderà dal risultato di domenica sera. Non saranno le “primarie interne” del Pd, ma mai come questa volta il futuro del partito sembra ad un bivio cruciale.

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