Economia

Perché è così importante che l’Italia mantenga rating “investment”

Con la decisione di Standard & Poor’s si allontana per ora lo spettro di una raffica di declassamenti sui titoli di Stato dell’Italia tale da espellerli dalla categoria “investment”, quella ritenuta più sicura, relegandoli a “speculative”, chiamato in gergo “spazzatura” (junck). Uno scenario che potrebbe innescare un potenziale effetto domino di pressioni e rialzi di rendimenti e spread molto più forti di quelli visti finora, con ricadute molto più gravi e dolorose di un disaccordo con l’Ue sui saldi del Bilancio.

Al momento quindi la valutazione di affidabilità creditizia della Penisola è BBB con Sandard & Poor’s, con outlook negativo, Baa2 (un gradino sotto) con Moody’s, con outlook stabile, e BBB con Fitch, anche qui con outlook negativo. Oggi S&P ha precisato che una bocciatura potrebbe intervenire nell’arco di 24 mesi, Fitch invece ha annunciato che aggiornerà le sue valutazioni entro il primo trimestre del 2019: vuole aspettare la versione definitiva del Bilancio, dopo il passaggio parlamentare.

Se i titoli di Stato italiani finissero fuori dall’investment grade, in base alle regole della Bce una prima ricaduta immediata investirebbe le banche. Non potrebbero più utilizzare le emissioni pubbliche tricolori (se a un rating junk co tutte e tre le agenzie) come garanzie (collateral) per aggiudicarsi i rifinanziamenti della stessa Bce. In pratica, avrebbero una parte rilevante del loro bilancio esposta su un segmento del tutto inutile per aggiudicarsi i rifinanziamenti cruciali per effettuare poi erogazione di prestiti e operazioni nell’economia.

Le banche italiane potrebbero ancora ottenere rifinaziamenti della Bce, ma fornendo come garanzie altri titoli con rating adeguati. Ovviamente l’inevitabile crollo di valore delle emissioni italiane – finire fori dall’investment grade costringerebbe tutti i fondi di investimento o pensione che hanno vincoli su questo aspetto a vendere i titoli della Penisola – creerebbe subito un effetto meccanico di perdita di valore per chiunque, banca o meno, li possieda. Ma per le banche questo eventuale calo di valore avrebbe un ulteriore risvolto negativo, perché potrebbe risultare di portata tale da compromettere i requisiti patrimoniali prudenziali previsti dalle regole sul settore bancario (Basilea III) forzandole a procedere a ricapitalzzazioni (in condizioni di mercato non certo favorevoli). Di recente uno studio individuava uno spread a 400 punti come soglia che farebbe scattare questo problema.

La seconda grande ricaduta negativa riguarderebbe gli stessi titoli pubblici italiani, a causa del piano di acquisti della Bce (il quantitative easing). L’istituzione attualmente è orientata ad interrompere gli acquisti netti dopo il mese di dicembre. Tanto per cominciare questo canale si chiuderà da subito per l’Italia se perdesse i requisiti di rating di acquistabilità (almeno un investment grade). Ma soprattutto a rischio c’è la parte di “trascinamento per inerzia” del Qe: la Bce ha ad oggi rilevato titoli di Stato per 2.138 miliardi, di cui 360 miliardi di titoli pubblici italiani. Questi bond giungeranno progressivamente a scadenze e l’impegno dell’istituzione, per mantenere condizioni di politica monetaria espansiva, è di rinnovare questi bond (e solo questi) a scadenza, per un periodo che al momento resta indeterminato.

Se i titoli italiani perdessero i rating minimi di ammissibilità sugli acquisti della Bce, questa non potrebbe procedere agli acquisti a scadenza. In questo modo, oltre alle vendite degli operatori privati sui mercati si scaricherebbero anche i Btp non riacquistati dalla Bce, con un potenziale effetto-spirale che potrebbe far salire ulteriormente tassi e spread e costi di rifianziamento del debito pubblico. L’unica scappatoia a quel punto sarebbe cercare di ottenere una deroga, un “waiver” che tuttavia, sempre in base alle regole della Bce, implica non pochi requisiti.

Il più importante è quello di aver chiesto e ottenuto un piano di supporto da parte del fondo salva Stati europeo, l’Esm, che comporterebbe la negoziazione di un programma di correzione assieme al fondo stesso e alla Commissione europea. Con quello la Bce potrebbe anche attivare il suo scudo antispread (l’Omt). Ma questo implicherebbe rivolgersi alle istituzioni Ue con ben altro atteggiamento rispetto a quello attuale. Significherebbe invitare la Troika e negoziare con i tecnici di Ue e Fondo monetario internazionale non sui decimali dei saldi di bilancio, ma su ogni singola misura di politica economica (come è accaduto a Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro).

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