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Pioggia di ferro dal cielo: l’Australia cattura un frammento di missione spaziale

Un enigmatico residuo di missione spaziale, largo quanto un barile e ancora rovente, ha sfondato l’isolamento del deserto di Pilbara, in Australia occidentale, sabato scorso. L’Agenzia Spaziale Australiana (ASA) ha annunciato la scoperta, identificandolo come probabile serbatoio di carburante da un razzo lanciato in orbita, scatenando un’indagine internazionale per tracciarne l’origine e scongiurare pericoli futuri.

I minatori, intenti a percorrere una pista sterrata remota, hanno avvistato l’oggetto carbonizzato tra la polvere rossa: un cilindro metallico, deformato dal calore estremo del rientro atmosferico, che fumava come un relitto di un falò cosmico. “Nessun rischio immediato per la popolazione”, ha rassicurato l’ASA in un comunicato ufficiale, ma il reperto è stato sigillato e trasferito in un laboratorio sicuro per analisi forensi. Esperti locali e internazionali, inclusi rappresentanti della NASA, stanno collaborando per decifrare la sua provenienza: potrebbe trattarsi di un componente di un Falcon 9 o di un altro veicolo commerciale, perso durante una fase di discesa incontrollata.

L’incidente solleva l’allarme su un fenomeno in espansione: la pioggia di frammenti orbitali che minaccia la Terra. Solo nel 2024, un blocco da 40 chili di una capsula SpaceX Crew Dragon si è schiantato sulle montagne della Carolina del Nord, mentre un pezzo da 700 grammi ha bucato il tetto di una abitazione a Naples, Florida, rivelandosi parte di un pallet scaricato dalla Stazione Spaziale Internazionale. Questi eventi, pur sporadici, segnano un trend preoccupante legato all’esplosione dei lanci: oltre 5.000 missioni annue, che lasciano in eredità tonnellate di scarti.

La corsa contro la spazzatura orbitale

Con decine di migliaia di oggetti tracciabili – e milioni di schegge invisibili – che sfrecciano a 29.000 chilometri orari intorno al pianeta, il pericolo è palpabile. Satelliti, stazioni orbitali e persino voli passeggeri potrebbero intercettare questi proiettili fantasma. La maggior parte dei razzi è progettata per disintegrarsi al rientro, ma i materiali resistenti come il titanio o gli acciai speciali spesso sopravvivono, preferendo atterrare in oceani o lande desolate come il Pilbara, lontano da centri abitati.

Gli scienziati sottolineano la rarità di impatti urbani, ma il boom del settore privato – da SpaceX a Blue Origin – amplifica le probabilità. “È come guidare bendati su un’autostrada affollata”, metafora usata da un analista della European Space Agency (ESA). Per contrastare questa deriva, agenzie globali pompano risorse in innovazioni: reti robotiche per catturare detriti, laser per deviarli e protocolli per “deorbitare” satelliti esausti entro cinque anni dal lancio.

L’ASA, pioniera nel monitoring downrange, ha twittato il suo pledge: “La sostenibilità spaziale è la nostra frontiera. Ridurremo i rifiuti orbitali e spingeremo per norme internazionali più stringenti”. Questo ritrovamento, quindi, non è solo un’anomalia: è un campanello d’allarme per un’era in cui lo spazio rischia di diventare una discarica celeste, con ripercussioni dirette sulla vita terrestre.

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Redazione