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Regionali Marche, Ricci e il campo largo sconfitti: ennesimo fallimento della linea Schlein

Elly Schlein e Giuseppe Conte

La roccaforte rossa crolla per la seconda volta. Le Marche, terra che per decenni ha rappresentato il cuore pulsante del progressismo italiano, confermano Francesco Acquaroli alla presidenza della Regione, sancendo l’ennesimo fallimento della strategia Schlein. Il tanto atteso “sorpasso” del centrosinistra si trasforma in una disfatta che compromette le ambizioni del Partito Democratico in vista delle politiche e mette a nudo le fragilità di un’alleanza costruita su equilibri precari e azzardi tattici.

Matteo Ricci esce sconfitto dalla competizione nonostante un risultato personale tutt’altro che disprezzabile: oltre 40mila voti in più rispetto alla coalizione che lo sosteneva. Ma i numeri, per quanto lusinghieri sul piano individuale, non bastano a mascherare l’inadeguatezza di una proposta politica che ha scelto di privilegiare l’asse con M5s e Alleanza Verdi-Sinistra, sacrificando sull’altare dell’ortodossia progressista quell’elettorato moderato che storicamente aveva garantito al centrosinistra il governo della regione.

Il bilancio è impietoso: nessun “effetto Gaza” in grado di mobilitare le piazze, nessuna spinta propulsiva dall’alleanza più larga possibile (Calenda escluso) tessuta pazientemente dalla segretaria dem. Solo la conferma che il centrodestra rappresenta un avversario solido, radicato, capace di intercettare umori e bisogni che il campo largo sembra non voler nemmeno ascoltare.

Schlein blinda la linea: avanti tutta verso il baratro

“Sapevamo che non sarebbe stato facile nelle Marche”. Con queste parole Elly Schlein ha provato a minimizzare una débâcle che invece suona come una sentenza sulla validità della sua leadership. Il tentativo di spostare rapidamente l’attenzione sulle altre cinque regioni al voto entro novembre non inganna nessuno: è la classica tattica dilatoria di chi non vuole fare i conti con gli errori commessi.

La segretaria sa perfettamente che il suo rapporto preferenziale con Giuseppe Conte e Angelo Bonelli sta alimentando tensioni crescenti nella minoranza interna del partito. E infatti il primo pensiero, subito dopo la sconfitta, non è stato quello di interrogarsi sui motivi del flop, ma di blindare la linea: “Il nostro impegno unitario con la coalizione progressista continua con grande determinazione”, ha dichiarato, come se la determinazione bastasse a compensare l’assenza di appeal elettorale.

Igor Taruffi, responsabile organizzazione e braccio destro della leader, è stato ancora più esplicito nel difendere l’indifendibile: “L’alleanza larga che abbiamo messo in campo nelle Marche e in tutte le altre regioni italiane deve ovviamente continuare”. Un “ovviamente” che tradisce tutto l’imbarazzo di chi si ostina a perseguire una strada che i fatti hanno già dimostrato essere un vicolo cieco.

Bersani in campo per esorcizzare la resa dei conti interna

L’intervento più significativo, però, arriva da Pier Luigi Bersani. L’ex segretario, solitamente parco di commenti sulla vita del partito, stavolta ha ritenuto necessario scendere in campo per placare le acque e scoraggiare le inevitabili recriminazioni: “Quella che dobbiamo fare non è una corsa dei 100 metri, è una partita più profonda. Attenzione allo sconfittismo”.

Un richiamo alla pazienza che in realtà rivela tutte le preoccupazioni della vecchia guardia dem. Bersani conosce fin troppo bene le dinamiche del Nazareno e sa che la minoranza sta già preparando le sue contromosse. Il ragionamento è elementare: concentrarsi esclusivamente sull’elettorato di sinistra significa abbandonare i moderati al loro destino, e quando i moderati non si sentono rappresentati, restano a casa oppure votano centrodestra. È precisamente quello che è successo nelle Marche.

Ma per ora nessuno osa esplicitare questi dubbi pubblicamente. La disciplina di partito impone silenzio: altre cinque regioni andranno al voto, la Calabria è già alle porte domenica prossima, e questo è il momento di fare campagna elettorale, non polemiche. I nodi, però, verranno al pettine a fine novembre, quando questo tour de force elettorale a rate sarà concluso e si potrà tirare le somme.

Un pareggio che sa di sconfitta

Il centrosinistra sperava nelle Regionali come trampolino di lancio per le politiche, immaginava di costruire un vantaggio psicologico e di slancio da capitalizzare nella sfida nazionale. Invece si ritrova con una sconfitta che brucia in una regione simbolo, persa per la seconda volta consecutiva dopo decenni di governo ininterrotto.

Lo scenario più probabile, a questo punto, è un pareggio: tre a tre tra centrodestra e centrosinistra al termine del ciclo elettorale. Un risultato che per chi ambiva al sorpasso equivale a una sconfitta. Il Partito Democratico ha scommesso tutto sull’abbraccio con Conte e Fratoianni, ha accettato di spostare il proprio baricentro a sinistra nella convinzione che questo bastasse a creare un’alternativa credibile. I marchigiani hanno risposto picche.

La riflessione, promessa per fine novembre, rischia di arrivare troppo tardi. Perché nel frattempo il centrodestra consolida il suo radicamento territoriale, mentre il campo largo continua a perdere pezzi tra gli elettori moderati, quelli che un tempo costituivano l’ossatura del centrosinistra e che oggi si sentono orfani di una rappresentanza politica. La domanda che aleggia tra i corridoi del Nazareno è sempre la stessa: fino a quando si potrà continuare a perdere prima di ammettere che la strategia va cambiata?

Pubblicato da
Enzo Marino