La vicenda affonda le radici nel dopoguerra. Il 5 giugno 1946, come ricostruito dal Corriere della Sera, l’avvocato Falcone Lucifero, all’epoca reggente del Ministero della Real Casa, depositò il tesoro a Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia, per conto di Re Umberto II. Il contratto di deposito specificava che i beni erano “le gioie di dotazione della Corona del Regno d’Italia per essere tenuti a disposizione di chi di diritto”. È proprio su questa dicitura che gli eredi dell’ex Re basano la loro rivendicazione.
Tuttavia, il giudice Mario Tanferna, motivando la sentenza che ha rigettato la prima istanza dei Savoia, ha sostenuto una tesi diametralmente opposta. “Nessuna restituzione, i gioielli non sono mai appartenuti a Re Umberto II, sono dello Stato fin dal tempo dello Statuto Albertino e tali sono rimasti nel passaggio alla Costituzione Repubblicana”, ha spiegato il magistrato. A supporto della decisione, è stata richiamata la XIII disposizione transitoria della Costituzione, che stabilisce l’avocazione allo Stato dei “beni degli ex re di casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi”.
La famiglia reale in esilio, attraverso l’avvocato Sergio Orlandi, ha immediatamente replicato, specificando che per “gioie di dotazione della Corona del Regno d’Italia” si intendeva che i preziosi erano stati “acquisiti dai membri di casa Savoia”. La difesa sostiene che non si trattò mai di confisca, ma di un semplice deposito di beni personali che, cessata l’esistenza della Corona del Regno, avrebbero dovuto fare ritorno agli eredi del Re.
Nel nuovo capitolo della contesa, i Savoia hanno chiesto ai giudici d’appello di non applicare la XIII disposizione costituzionale, ritenendola in contrasto con la normativa europea. Parallelamente, hanno avanzato la richiesta di riapertura del cofanetto custodito in Banca d’Italia per un accertamento del contenuto.
A rafforzare la propria posizione, gli eredi hanno tirato in ballo una testimonianza di prestigio: quella di Luigi Einaudi, allora governatore della Banca d’Italia e futuro Presidente della Repubblica. Nei suoi diari, Einaudi avrebbe “discusso” la questione, ipotizzando che “le gioie spettano non al demanio dello Stato, ma alla famiglia Reale”.
Einaudi, secondo la difesa, “testimonia che la formula ‘a chi di diritto’ salva le eventuali ragioni del Re”. Una tesi che il giudice Tanferna ha respinto con fermezza, negando un “valore decisivo ai diari”.
Sulla stessa linea, Olina Capolino, ex capo degli avvocati della Banca d’Italia, ha commentato che le memorie personali darebbero conto di “convinzioni personali dell’autore fondate su sentimenti di stima personale nei confronti del ‘Re di maggio’, nonché su non celate simpatie monarchiche”. Al momento, l’unica certezza è che il contenzioso proseguirà in Corte d’Appello.