Cultura e Spettacolo

Si spegne a 89 anni l’ultimo leone di Hollywood: addio al mito Robert Redford

È morto nel sonno, nella sua casa di Provo nello Utah, come un personaggio dei suoi film: senza clamore, con la stessa eleganza discreta che ha caratterizzato ogni sua scelta artistica. Robert Redford se n’è andato a 89 anni, portando con sé un pezzo dell’America più bella, quella capace di sognare e lottare per i propri ideali.

La conferma arriva dal New York Times attraverso Cindi Berger, Ceo di Rogers & Cowan Pmk, che ha chiuso definitivamente le porte su oltre mezzo secolo di leggenda cinematografica. Con lui scompare l’ultimo dei grandi romantici di Hollywood, l’uomo che ha saputo trasformare il proprio fascino in strumento di cambiamento culturale.

Non è stato solo un divo: è stato un architetto di sogni, un costruttore di ponti tra il cinema commerciale e quello d’autore, un guerriero silenzioso che ha combattuto le sue battaglie più importanti lontano dai riflettori. Era il 1969 quando il mondo si innamorò di quel sorriso scanzonato che cavalcava accanto a Paul Newman in “Butch Cassidy”.

Lo sguardo limpido, la naturalezza davanti alla macchina da presa, quella capacità unica di essere contemporaneamente ribelle e rassicurante: Robert Redford diventò icona nell’istante in cui il pubblico lo vide per la prima volta. Da quel momento non è più uscito dall’immaginario collettivo, diventando il volto di un’America che credeva ancora in se stessa.

Gli anni Settanta furono la sua consacrazione definitiva. “La stangata” con Paul Newman, “Come eravamo” con Barbra Streisand, “I tre giorni del Condor”: ogni film era un tassello di un mosaico perfetto che raccontava le contraddizioni di una nazione in trasformazione. Ma fu “Tutti gli uomini del presidente” a segnare la svolta: nei panni del giornalista Bob Woodward, Redford non interpretava solo un personaggio, incarnava l’essenza stessa del reporter americano che sfida il potere per difendere la verità.

Il regista visionario che ha cambiato le regole del gioco

Nel 1980 arriva la consacrazione definitiva: “Gente comune”, il suo esordio alla regia, gli vale l’Oscar come miglior regista al primo tentativo. Un risultato che avrebbe potuto soddisfare qualsiasi carriera, ma per Redford era solo l’inizio di una nuova avventura. Dietro la macchina da presa trova una libertà che davanti non aveva mai sperimentato completamente: la possibilità di raccontare storie autentiche, universali, capaci di toccare l’animo umano senza compromessi commerciali.

“In mezzo scorre il fiume”, “Quiz Show”, “L’uomo che sussurrava ai cavalli”: ogni sua regia è una dichiarazione d’intenti, la ricerca ostinata di quella verità che il cinema mainstream troppo spesso sacrifica sull’altare dell’intrattenimento. Redford non ha mai accettato di essere solo una star, ha sempre voluto essere un narratore, un testimone del proprio tempo, un interprete delle paure e delle speranze americane.

Ma la sua rivoluzione più silenziosa e duratura è stata la fondazione del Sundance Institute nel 1981. Insieme all’amico Sydney Pollack, Redford ha creato quello che sarebbe diventato il tempio del cinema indipendente americano. Il nome, ispirato al suo personaggio in “Butch Cassidy”, ha finito per rappresentare molto più di un festival: è diventato simbolo di resistenza creativa, fucina di talenti che altrimenti non avrebbero mai trovato spazio nell’industria hollywoodiana.

La fucina dei talenti che ha scoperto il nuovo cinema

Senza Sundance, oggi non avremmo Quentin Tarantino, Kevin Smith, Robert Rodriguez, Jim Jarmusch, Darren Aronofsky, Christopher Nolan, James Wan. Redford ha investito le proprie risorse e il proprio prestigio per garantire a una generazione di giovani registi la possibilità di raccontare le proprie storie. Ha fornito location, professori, materiale tecnico, consulenza di grandi professionisti, tutto a spese pagate per quattro settimane intensive che hanno cambiato il volto del cinema americano.

“L’operazione Sundance racconta più di ogni altro gesto chi fosse davvero Robert Redford: un visionario convinto che il cinema potesse e dovesse essere strumento di trasformazione sociale, non solo intrattenimento”.

Odiava l’approccio hollywoodiano che tendeva a banalizzare ogni storia, voleva che i suoi film avessero sempre un peso culturale, affrontassero temi complessi come il lutto, la corruzione politica, la difesa dell’ambiente. La sua vita privata è stata specchio di questa ricerca di autenticità. Dal matrimonio con Lola Van Wagenen sono nati quattro figli, ma la tragedia ha segnato profondamente la famiglia: il primogenito Scott è morto neonato, il figlio James nel 2020 a 58 anni. Dal 2009 era sposato con la pittrice tedesca Sibylle Szaggars, compagna discreta che ha condiviso con lui gli ultimi anni di progressivo ritiro dalle scene.

Il testamento artistico di un gigante

Nel 2013, a 77 anni, Redford ha sorpreso tutti con “All Is Lost”, film quasi muto in cui, solo su una barca in mezzo all’oceano, lottava per la sopravvivenza con appena 51 battute di dialogo. Un’opera estrema, coraggiosa, quasi un testamento artistico che dimostrava ancora una volta la sua capacità di mettersi in gioco, di sfidare se stesso e il pubblico.

Era la prova definitiva che il suo talento andava ben oltre il fascino dello sguardo, dei capelli biondi, del sorriso che aveva fatto innamorare il mondo. L’ultimo post sul suo account Instagram, in occasione del 89° compleanno ad agosto, era un bilancio sereno di una carriera straordinaria: “Buon compleanno alla mia umile persona”, scriveva con quella ironia gentile che l’aveva sempre caratterizzato.

Ricordava la vittoria del Bafta per “Butch Cassidy” nel 1971, l’Oscar per la regia di “Gente comune”, ma soprattutto la fondazione del Sundance Institute: “Il risultato di cui sono più orgoglioso, quello che ha spinto il movimento del cinema indipendente”.

Il coro di addii: quando muore una leggenda

Le reazioni alla sua scomparsa raccontano l’ampiezza del suo impatto. Antonio Banderas ha scritto: “Ci lascia un’icona del cinema con la C maiuscola. Il suo talento continuerà a emozionarci per sempre”. Jane Fonda, sua partner in “A piedi nudi nel parco”, ha dichiarato: “Non riesco a smettere di piangere. Ha rappresentato un’America per cui dobbiamo continuare a lottare”.

Meryl Streep, che con lui ha vissuto la magia de “La mia Africa”: “Uno dei leoni se n’è andato. Riposa in pace, mio caro amico”. Persino Donald Trump, che Redford nel 2019 aveva definito “un dittatore all’attacco dei valori di questo Paese”, ha reso omaggio al “grande” Robert Redford, dimostrazione di come certi talenti trascendano ogni divisione politica.

Nato il 18 agosto 1936 a Santa Monica da una famiglia modesta – la madre casalinga, il padre lattaio di origine irlandese – Redford aveva visto morire la madre a soli 41 anni e aveva abbandonato gli studi nel 1956 per partire per l’Italia e la Francia, alla ricerca della propria strada artistica. Una scelta coraggiosa che anticipava la sua attitudine a non accontentarsi mai delle soluzioni facili.

L’eredità di un sognatore ostinato

Con la sua morte si chiude un’epoca irripetibile. Redford non era solo attore, non era solo regista, non era solo attivista ambientale: era un sognatore ostinato, convinto che il cinema potesse cambiare le persone e il mondo. Ha dimostrato che si può essere stelle di prima grandezza senza perdere la propria integrità, che il successo può essere strumento di cambiamento sociale, che il glamour e l’impegno civile non sono incompatibili.

L’America del grande schermo perde uno dei suoi ultimi eroi romantici, il pubblico internazionale un compagno di emozioni che ha attraversato generazioni. Ma la sua eredità più preziosa resterà nelle storie che ha contribuito a far nascere, nei talenti che ha scoperto e formato, nell’idea rivoluzionaria che il cinema indipendente potesse competere con le major e vincere.

Robert Redford ha dimostrato che si può essere grandi senza dimenticare di essere umani, famosi senza perdere l’umiltà, ricchi senza smettere di lottare per la giustizia. In un mondo sempre più cinico, ha mantenuto intatta la capacità di sognare e di far sognare. Per questo, più che una stella di Hollywood, è stato l’ultimo rappresentante di un’America in cui valeva ancora la pena credere.

Pubblicato da
Maurizio Balistreri