Scienza e Tecnologia

Sissa, dai buchi neri primordiali nuovi indizi su materia oscura

Studiando le interazioni tra la luce e i gas nello spazio intergalattico, utilizzando supercomputer e telescopi, ricercatori della SISSA indagano sulla composizione dell’Universo. “Abbiamo testato uno scenario in cui la materia oscura è composta da buchi neri non stellari, ma formati nell’universo primordiale”, afferma Riccardo Murgia, primo autore dello studio recentemente pubblicato su Physical Review Letters insieme ai colleghi Giulio Scelfo e Matteo Viel della SISSA – Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati e dell’INFN sezione di Trieste e ad Alvise Raccanelli del CERN di Ginevra. I buchi neri primordiali (PBH – Primordial Back Holes per i cosmologi) sono oggetti formatisi frazioni di secondo dopo il Big Bang, ritenuti da molti studiosi tra i principali candidati nello spiegare la natura della materia oscura, soprattutto dopo le osservazioni dirette di onde gravitazionali da parte dei rilevatori VIRGO e LIGO nel 2016.

“I PBHs sono per il momento ancora oggetti ipotetici, ma sono previsti in alcuni modelli dell’universo primordiale”, precisa Raccanelli del CERN. “Inizialmente proposti da Stephen Hawking nel 1971, sono tornati alla ribalta negli ultimi anni come possibili candidati per spiegare la materia oscura. Si crede che questa sia circa l’80% di tutta la materia presente nell’Universo, per cui spiegarne anche una piccola parte sarebbe un risultato importantissimo. Inoltre, cercare prove dell’esistenza di PBHs o escludere che esistano ci fornisce informazioni di grande rilevanza sulla fisica dell’universo primordiale”.

In questo lavoro – spiega Sissa – gli scienziati si sono concentrati in particolare sull’abbondanza di PBH più massivi di 50 volte la massa del sole. In pratica, i ricercatori hanno cercato di definire meglio alcuni parametri legati alla loro presenza (massa e abbondanza per la precisione) analizzando l’interazione della luce emessa da lontanissimi quasar con la ragnatela cosmica (cosiddetta “cosmic web”), una rete di filamenti composta da gas e materia oscura presente in tutto l’Universo. All’interno di questa fitta trama, gli studiosi si sono concentrati sulla “foresta Lyman-alfa”, ovvero l’insieme delle interazioni dei fotoni con l’idrogeno dei filamenti cosmici, che presenta delle caratteristiche strettamente legate alla natura fondamentale della materia oscura.

Attraverso simulazioni effettuate con il supercomputer Ulysses di SISSA e ICTP, sono state riprodotte le interazioni tra fotoni e idrogeno e confrontate con interazioni “reali”, rilevate dal telescopio Keck (nelle Hawaii). I ricercatori hanno così potuto tracciare alcune proprietà dei buchi neri primordiali che permettono di capire gli effetti della loro presenza. “Abbiamo simulato al computer la distribuzione di idrogeno neutro a scale subgalattiche, che si manifesta sotto forma di righe di assorbimento negli spettri di sorgenti lontane”, continua Murgia.
“Confrontando con i dati osservativi i risultati delle nostre simulazioni è pertanto possibile stabilire dei limiti sulla massa e l’abbondanza dei buchi neri primordiali e determinare se e in che misura tali candidati possano costituire la materia oscura”.

I risultati dello studio sembrano sfavorire il caso che tutta la materia oscura sia composta da un certo tipo di buchi neri primordiali (quelli con una massa maggiore di 50 volte la massa solare) ma non escludono del tutto che potrebbero costituirne una frazione. “Abbiamo sviluppato un nuovo metodo che permette di esplorare in maniera semplice ed efficiente scenari alternativi al modello cosmologico standard, secondo cui la materia oscura sarebbe invece composta da particelle che chiamate WIMPs (Weakly Interacting Massive Particles)”. Questi risultati, importanti per la costruzione di nuovi modelli teorici e l’elaborazione di nuove ipotesi sulla natura della materia oscura, offrono una serie di indicazioni molto più precise per tracciare l’intricato percorso verso la comprensione di uno dei più grandi misteri del cosmo.

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