La vicenda ha origine da una donna con sclerosi multipla che si trova nelle condizioni previste dalla Consulta per accedere al suicidio medicalmente assistito, come verificato dall’azienda sanitaria competente. Tuttavia, la progressione della malattia l’ha privata dell’uso degli arti, rendendo impossibile l’autosomministrazione del farmaco. Sul mercato, inoltre, non è disponibile la strumentazione necessaria per procedere autonomamente, come una pompa infusionale attivabile con comando vocale o tramite movimenti della bocca e degli occhi, le uniche modalità compatibili con le sue condizioni.
La paziente ha presentato ricorso d’urgenza al Tribunale di Firenze chiedendo di accertare che il suo diritto di autodeterminazione includesse la possibilità di farsi somministrare il farmaco da terzi. Il tribunale ha quindi sollevato questione di legittimità costituzionale sull’articolo 579 del codice penale, che punisce l’omicidio del consenziente, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi materialmente attua la volontà del malato impossibilitato a procedere autonomamente.
Secondo il Tribunale di Firenze, punire chi aiuta materialmente il paziente impedirebbe di fatto l’esercizio del diritto al suicidio assistito per un “dato meramente accidentale” come l’incidenza della patologia sull’uso degli arti. Questo creerebbe una “irragionevole disparità di trattamento” rispetto ai pazienti che conservano l’uso degli arti e violerebbe il diritto all’autodeterminazione.
La Corte costituzionale ha però dichiarato inammissibili le questioni per un vizio procedurale. I giudici hanno rilevato che il tribunale non ha motivato “in maniera né adeguata, né conclusiva” la reale impossibilità di reperire dispositivi per l’autosomministrazione.
L’ordinanza di rimessione si è limitata a richiamare “l’interlocuzione intercorsa con l’azienda sanitaria locale”, fermandosi a una “presa d’atto delle semplici ricerche di mercato di una struttura operativa del Servizio sanitario regionale”. Secondo la Consulta, il giudice avrebbe dovuto coinvolgere “organismi specializzati operanti a livello centrale”, come l’Istituto superiore di sanità.
Nonostante l’inammissibilità, la sentenza chiarisce principi importanti. Se i dispositivi per l’autosomministrazione fossero reperibili “in tempi ragionevolmente correlati allo stato di sofferenza della paziente”, questa “avrebbe diritto ad avvalersene”.
La Corte ribadisce che chi ha accesso al suicidio assistito “ha una situazione soggettiva tutelata” e “ha diritto di essere accompagnata dal Servizio sanitario nazionale nella procedura”. Questo diritto include “il reperimento dei dispositivi idonei, laddove esistenti, e l’ausilio nel relativo impiego”.
Il Servizio sanitario nazionale è tenuto a svolgere “un doveroso ruolo di garanzia che è, innanzitutto, presidio delle persone più fragili”, conclude la sentenza, delineando così gli obblighi delle strutture pubbliche nel garantire l’effettivo accesso al suicidio medicalmente assistito.