Tomahawk per Kiev, i missili che imbarazzano Washington: il Cremlino alza la voce

Trump valuta la fornitura di razzi all’Ucraina mentre Mosca minaccia rappresaglie contro i “centri decisionali” della capitale ucraina.

Tomahawkok

Missile Tomahawk

La Casa Bianca si prepara a giocare la carta Tomahawk. Venerdì, nell’incontro con Volodymyr Zelensky, Donald Trump metterà sul piatto la fornitura dei missili da crociera a lungo raggio, l’arma che Kiev chiede da mesi per colpire in profondità il territorio russo. Ma il presidente americano frena: preferisce agitare la minaccia come strumento di pressione su Mosca piuttosto che autorizzare davvero l’invio. Il Cremlino non ci sta e rilancia quotidianamente allarmi da giorni: sarebbe un’escalation mai vista prima, avverte il Cremlino, tanto più che l’Ucraina non è in grado di utilizzare questi sistemi d’arma in autonomia. Dietro le schermaglie diplomatiche, però, ci sono ostacoli concreti che rendono l’operazione più complessa di quanto sembri.

Il Tomahawk non è un missile qualunque. Può viaggiare fino a duemila chilometri e colpire con precisione millimetrica basi aeree, depositi militari, impianti industriali fortificati. È l’arma che fa la differenza quando si tratta di neutralizzare obiettivi strategici in profondità. Il problema è che nasce per essere lanciato dal mare: navi da guerra e sottomarini, non rampe terrestri. E qui si annida il primo nodo. Il Mar Nero è off-limits per la flotta NATO: la Turchia controlla gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli e, in base al trattato di Montreux, in tempo di guerra nessuna unità militare può attraversarli. L’Ucraina non ha sbocchi marittimi utilizzabili.

Restano i lanciatori terrestri, i sistemi Typhon. Ma Washington ne ha pochissimi ed sono già schierati su altri fronti: l’Indo-Pacifico, dove sale la tensione con Pechino, e la Germania, baluardo strategico europeo. C’è poi un altro dettaglio: gli Stati Uniti stanno tagliando la produzione dei Tomahawk per puntare su armamenti di ultima generazione. Risultato: secondo le stime degli analisti militari, gli USA potrebbero cedere all’Ucraina al massimo tra venticinque e cinquanta missili. Una goccia nel mare, più un gesto simbolico che una svolta tattica vera e propria.

Mosca minaccia ritorsioni sui “centri di potere”

Il Cremlino ha alzato subito le barricate. Parla di “nuova fase di escalation” e ricorda che il rischio del dispiegamento di missili americani ai confini russi è stato per anni una delle giustificazioni dell’invasione dell’Ucraina. Ora che quello scenario potrebbe materializzarsi, Mosca rilancia con minacce nemmeno troppo velate. Fonti vicine al governo russo hanno fatto trapelare l’ipotesi di attacchi “ai centri decisionali” ucraini: in gergo militare significa colpire palazzo presidenziale, ministeri, comandi.

Gli esperti ritengono improbabile una escalation nucleare, ma il Cremlino potrebbe usare la carta Tomahawk per giustificare un’intensificazione delle operazioni belliche. Nel frattempo, Mosca continua a puntare il dito contro Kiev e gli europei, accusandoli di bloccare ogni spiraglio negoziale. L’Ucraina non resta comunque a mani vuote.

Sul terreno sono già operativi gli Storm Shadow e gli SCALP, missili europei con trecento chilometri di gittata. Sono in arrivo anche gli ERAM americani, che arrivano a cinquecento chilometri. Kiev sta poi lavorando a programmi nazionali: il Neptun, che dovrebbe raggiungere i mille chilometri, e i Flamingo, capaci teoricamente di colpire fino a tremila chilometri. Quest’ultimo progetto viene sviluppato attraverso un’azienda con sede nel Regno Unito, finita però sotto inchiesta per scandali legati alla corruzione. Tutti progetti che richiedono tempo, mentre la guerra avanza giorno per giorno.